“I detenuti interpreteranno i corti in maniera diversa rispetto agli studenti di cinema, quali saranno le loro sensazioni e i punti di vista?”, si chiede Gianfranco Pannone, regista e selezionatore della sezione Documentari Open Eyes nell’ambito del Medfilm Festival e per l’occasione coordinatore della giuria Methexis. I giurati, per metà da allievi di scuole europee e del Mediterraneo e per metà da reclusi di cinque carceri italiani, da Padova a Palermo, si sono incontrati la mattina di venerdì 25 novembre e presso l’istituto penitenziario di Rebibbia per la riunione plenaria che ha stabilito il vincitore tra i cortometraggi in concorso, Checkpoint, produzione francese che racconta la storia di un ragazzino palestinese nella Striscia di Gaza, disposto a farsi arrestare pur di ottenere finanziamenti dall’Olp.
L’arrivo al carcere di Rebibbia è poco dopo le 9.30, ma tra il controllo documenti e la richiesta d’autorizzazione per portare le macchine fotografiche passa un’ora buona prima di entrare. All’ingresso crolla ogni cliché che viene proposto da un certo tipo di cinematografia. C’è un piccolo museo, l’Antiquarium, con alcuni reperti romani, allestito nel 2005 dai detenuti sotto la supervisione di archeologi, restauratori ed architetti. Nessun rumore metallico di sbarre che si aprono all’unisono, né scene alla Jodie Foster nel Silenzio degli innocenti. “Sembra più un campus universitario”, azzarda Paola Micalizzi, responsabile del progetto Methexis. Dopo aver lasciato passaporti e carte d’identità per il badge destinato ai visitatori, si accede direttamente al teatro sul cortile interno, dove vengono proiettati i quattro corti finalisti.
Tre i lavori scelti da ogni branca della giuria, ma si capisce subito che la decisione finale sarà più facile del previsto, perché due mettono tutti d’accordo: Checkpoint e Noor, film libanese con protagonista una bambina palestinese, sfruttata dalla famiglia adottiva come venditrice ambulante per aumentare il proprio benessere. Arrivano alla “finale” anche i due prodotti italiani, Stand by me, storia del Cavalier Pacucci, genio dell’imprenditoria funebre, e Il cane, vincitore del premio Cervantes, attribuito dai soli studenti, dove un uomo ridotto sul lastrico e con un matrimonio fallito si trova, sul punto di suicidarsi, ad affrontare la materializzazione delle proprie paure.
La selezione dei detenuti “Siamo stati scelti per l’esperienza personale, la cultura generale di ognuno di noi, quando c’è qualche evento sanno già chi chiamare”, spiega Tommaso, 61 anni, in carcere dal 1994, “io anche prima di stare qui ero interessato alla letteratura, nelle conversazioni riesco a spaziare su tutto, ora seguiamo diversi corsi, tra cui teatro”. Tra i più attivi Giovanni D’Ursi, 33 anni, nato a Roma ma cresciuto tra Casoria e Secondigliano. Tornato nella capitale da adolescente, nel 2001 in seguito ad una banale rissa fuori da una discoteca, estrae una pistola e uccide il ventunenne Nello Caprantini. Diversa invece la motivazione per Serigne, senegalese di 35 anni, in Italia dal ’93 ma ancora con forti difficoltà linguistiche, segnalato dall’educatrice personale.
Diverso approccio, stesso risultato Nonostante le difficoltà tecniche, dalla bassa qualità dell’audio al fatto che la sala proiezioni fosse spesso occupata e bisognava ripiegare su un pc portatile, ma soprattutto l’assenza di sottotitoli che ha costretto a basarsi sulle poche righe delle schede consegnate, il lavoro a Rebibbia è stato portato avanti con serietà e il dibattito finale, molto competente, ne è stata la prova. I detenuti hanno privilegiato l’aspetto emotivo rispetto a quello tecnico/stilistico. “Quasi tutti i corti erano molto tristi”, spiega Mario, “più degli altri quello greco (Left Right, ndr), metteva in scena una solitudine totale”. A spuntarla quello che più è riuscito ad equilibrare le varie componenti, dalla forza della storia all’atmosfera, dalla colonna sonora al paesaggio.
Prima visita in un penitenziario per quasi tutti i ragazzi delle scuole da ogni parte del Mediterraneo, non per Ioana Maria, rumena, 22 anni, già autrice di un documentario nel carcere di Bucarest. “Quest’istituto è molto più bello, c’è addirittura un piccolo museo all’ingresso. Sono rimasta molto colpita dal loro giudizio, dal bilanciamento nelle loro scelte tra drammaticità e comicità. È stata un’esperienza unica, da cui imparare molto”. “Peccato solo che al dibattito non abbiano partecipato anche quelli dagli altri penitenziari”, aggiunge Mina Bergant, slovena.
Premio Cervantes Il cane, testa a testa con Checkpoint per il Methexis, si “consola” con il Premio Cervantes, più votato dai 10 giurati nella riunione del giovedì sera, al termine di tutte le proiezioni alla Casa del Cinema. Caldeggiato in particolar modo dai tre italiani, Elisa Porfiri, Walter Cordopatri e Stefano Muroni, gli ultimi due unici attori del gruppo presso la Scuola Nazionale Cinematografica di Roma, non per patriottismo, ma per il “forte messaggio che arriva direttamente allo spettatore, che si può facilmente immedesimare sostituendo i propri problemi a quelli del protagonista, simboleggiati dal cane”, che gli dà una caccia spietata. Forse per sfinimento dopo la lunga discussione, ma alla fine (quasi) tutti concordi sulla scelta.
Una bella esperienza condivisa dai ragazzi, anche se i ritmi serrati hanno lasciato poco spazio alle visite della città, come per Elad Adelman, israeliano, per la prima volta a Roma: “dovrò tornarci con più calma”, mentre Gina Mokbel Youssef, del Cairo, approfitta di alcuni amici per prolungare la permanenza dopo la fine del festival. “È stato tutto nuovo, specialmente per dei non professionisti”, dichiara Elias Achkar, dal Libano. “In fondo non abbiamo lottato troppo”, scherza, “è stata una bella sfida, un incontro tra differenti culture.” Per Walter “un confronto con altre idee riguardo al cinema, sul linguaggio e le concezioni in generale. Specie l’incontro a Rebibbia è stato un gran successo, sono rimasto colpito dalle alte opinioni dei detenuti. Nel complesso, da nord a sud del mondo, ho capito che c’è entusiasmo e voglia di fare, basta darci le opportunità”.
Gabriele Santoro(28 novembre 2011)