Piazza Mancini non cessa di essere protagonista della cronaca di Roma per i disordini che coinvolgono gente straniera. Tra questi: il sequestro del 29 novembre di sigarette ed alcolici venduti illegalmente da alcuni sudamericani; l’arresto del 23 dicembre di un trentaduenne peruviano che – scoperto ubriaco alla guida – insieme alle due donne che erano in auto con lui ha aggredito i carabinieri che effettuavano il controllo; le numerose risse come quella del 29 dicembre culminata con l’accoltellamento di un uomo generalmente definito ‘indo-asiatico’.
“Capisco la diffidenza degli italiani. Eccezion fatta per le violenze familiari o domestiche, ogni aggressione metropolitana raccontata in tv e sui giornali è sempre opera di stranieri.” Afferma Sarah, filippina trentenne che da anni vive a piazza Mancini. “D’estate in certi orari la piazza si riempie di gente che beve, fa chiasso e lascia bottiglie vuote in giro” spiega Sarah che si trova in piazza di passaggio mentre la sua bambina dorme nel passeggino. “Io stessa evito la piazza in certi orari. A ottobre la gente del quartiere, incluso mio marito, ha manifestato per chiedere di trasformare la piazza in un parco recintato e custodito”. Il degrado di piazza Mancini è legato alla forte presenza di stranieri o piuttosto al suo essere punto di snodo per il trasporto pubblico? E la gestione da parte della pubblica amministrazione? Ma soprattutto è un problema reale? E come lo percepiscono gli italiani e stranieri che abitano nel quartiere?
Da Boccea a San Giovanni, da via Cassia a Parioli. Piazza Mancini è capolinea di tredici linee Atac. Collega così Monte Mario a Saxa Rubra, Boccea a piazza di Porta San Giovanni, via Cassia a Parioli. Centinaia di persone l’attraversano ogni giorno. Molti stranieri, se non hanno una famiglia che li aspetta, si fermano a chiacchierare per poi raggiungere il luogo di lavoro o perché posto comodo dove incontrarsi se si abita sparpagliati per la città. “Peruviani, filippini e zingari stazionano qui fino a tarda notte. Fanno chiasso, tengono la musica ad alto volume, si ubriacano e spesso scoppiano risse violente” spiega la banchista di un bar che si affaccia sulla piazza. Francesco, sedicenne che fequenta il liceo artistico in via Penturicchio 71, era presente il 5 settembre quando tre filippini hanno fatto a botte vicino ai capolinea degli autobus. “Erano ubriachi in pieno giorno, è dovuta intervenire la polizia. Ne ha arrestati due” racconta Francesco. “Ho compagni di scuola stranieri con i quali ho un ottimo rapporto. I gruppetti che riempiono la piazza la domenica e il giovedì sono un’altra cosa” continua Francesco. “Il problema è reale, la piazza è sempre sporca e le mamme nelle loro passeggiate pomeridiane preferiscono andare a piazzale Ankara” sottolineano Rubel e Gianet una giovane coppia di filippini che lavorano come domestici nel quartiere. “Io prediligoco piazza Manila dove si incontrano molti filippini: giocano a carte, mangiano e dopo puliscono tutto. Ci sono stati arresti per gioco d’azzardo ma mai per disordine o risse” spiega Sarah madre di un bambino di quasi tre anni.
Dalla Moldavia all’Indonesia. “Abito sulla Cassia e lavoro qua vicino, mi fermo qui a riposare, incontro qualche amico, ci sediamo senza necessariamente andare in un bar” spiega Traian venticinquenne moldavo che lavora a Roma come muratore da un paio d’anni. E’ in compagnia di Igor, connazionale ventiquattrenne da un anno in Italia, chiacchierano mangiando semi di zucca e gettano le bucce in sacchetto di plastica ai loro piedi. “Siamo stanchi delle generalizzazioni che fanno, un periodo se la prendono con i romeni, un altro con i magrebini” sottolinea Igor. “Così non ci vogliono assumere perché stranieri, poi ci assumono e siccome siamo immigrati ci danno condizioni di lavoro e salario bassissime. Quest’atteggiamento scoraggia, siamo trattati come criminali solo perché stranieri”.
Nella piazza si soffermano anche badanti e babysitter. Floriana, Rosa e Mistin di origini indonesiane si sono conosciute a Roma e passano in piazza solo quando il loro tempo libero glielo permette. Spiegano subito che il loro Paese è composto da isole ognuna con caratteristiche proprie. Flores da dove viene Floriana è a prevalenza cattolica, Timor l’isola di Rosa protestante e Giava, terra natale di Mistin, musulmana. “Non c’è una cultura unitaria e pochi italiani lo sanno” spiega Floriana. “Così come in Indonesia la gente ha un’idea dell’Italia diversa dalla realtà. Tutte le mie aspettative sono state smentite, sia quelle culturali che quelle sulla vita quotidiana. Ad esempio in Indonesia si pensa che gli italiani siano tutti molto cristiani”. Con grande sorpresa Floriana e Rosa, poco più che venticinquenni, hanno scoperto che in Chiesa vanno solo gli anziani e che si può andare in jeans a messa. “Nel lavoro il problema non è trovarlo ma farsi rispettare”. Raccontano come spesso gli italiani si approfittino degli stranieri che non conosco la lingua e le leggi italiane. “A volte fanno contratti come fossi una studentessa o una ragazza alla pari cosi non danno la tredicesima. Il lavoro domestico significa non staccare mai c’è sempre qualcosa da fare. Non esiste il concetto di ‘lavoro straordinario’ però se sei babysitter ti chiedono di pulire, stirare, andare nell’ufficio del figlio e pulire anche quello o preparare da mangiare quando fanno le feste” spiega Rosa. “Sono venuta in Italia per poter far studiare i miei figli, in Indonesia l’istruzione è molto costosa” spiega Mistin quarantenne madre di cinque figli di cui la più grande ha ventun anni e il più piccolo quattro, tutti rimasti in Indonesia. Gli indonesiani a Roma e provincia sono cinquecentotredici così Floriana, Rosa e Mistin nonostante il poco tempo libero fanno amicizia facilmente con i loro connazionali alla festa che l’Ambasciata ogni anno organizza per il giorno dell’indipendenza, il 17 agosto. Creano legami che coltivano incontrandosi nelle piazze e nei parchi dove si confrontano e aiutano anche in tema di leggi italiane e di lavoro.
Se sei bianco… se sei nera… “Anche se non succede niente di male, l’aria che si respira in piazza è spiacevole. Io ho avuto una brutta esperienza con un estraneo italiano che proprio di fronte alla piazza, in via Pinturicchio, mi ha molestata a tal punto che ho dovuto urlare e chiedere aiuto” confida Sarah. “In Italia c’è più libertà e ordine che nelle Filippine, ma io vivo qui così come vivevo lì, la mia famiglia è di ceto medio”. E’ venuta in Italia dopo le insistenze della madre che già lavorava a Roma. “Proprio quando le dissi che sarei tornata a casa è nata la storia d’amore con un uomo italiano. Siccome vengo dalle Filippine la gente pensa che non ho soldi e mi snobba, è un razzismo economico. Mi dicono che anche tra italiani è così e che non devo dargli peso”. Sarah spiega come queste forme di classismo la irritino anche in senso inverso. Nel suo paese d’origine il marito è servito e riverito “solo perché è un bianco. Non puoi trattare male o bene una persona a secondo del colore della sua pelle.” Sarah subisce una doppia pressione, da un alto i filippini la trattano con distacco perché è moglie di un bianco, dall’altro lato gli italiani la guardano con diffidenza perché ha sposato un italiano. “La comunità filippina è molto chiusa pensano che io mi senta importante per via del mio matrimonio e mi snobbano a priori. Ho amici polacchi, cinesi, giapponesi, italiani ma non filippini. Ho vissuto qualche mese in America da degli zii. E lì finché non fai qualcosa di male ti trattano con il sorriso” conclude Sarah.
M. Daniela Basile(25 gennaio 2011)