Alberi tagliati su uno schermo che poi si rivela una tenda. La figura di un uomo magro che ingrassa sempre di più. Le luci si accendono su una scenografia essenziale che dà l’idea di un villaggio africano. Tre ballerini uomini e una donna fremono sincopati, un musicista suona la chitarra classica e canta una canzone: sembra cantata con la gola, come fanno anche in Mongolia. La sua voce è profondissima e coinvolgente, più dei bassi, e quanto la sua risata che ritma le prime scene.
Si apre così la prima italiana di Kohkuma 7° Sud della Faso Danse Theatre di Serge-Aimé Coulibaly che si è svolta mercoledì 15 nella sala Petrassi dell’Auditorium di Roma. Evidente il lavoro che c’è dietro: Coulibaly, ideatore e coreografo, non intendeva solo fondare una compagnia di danza – gli artisti sono tutti del Burkina Faso, ma per lavorare la compagnia ha dovuto spostarsi in Francia – ma “uno spazio aperto all’incontro, alla riflessione e alla ricerca sulla coreografia contemporanea in Africa”. Secondo la Faso Danse Theatre “l’arte è anzitutto espressione di un impegno: la volontà di interrogare e di provocare una reazione; il desiderio di sensibilizzare il pubblico su temi sociali forti attraverso l’emozione provocata dallo spettacolo, la danza, il testo, la musica e la scenografia; la decisione di ricorrere a un linguaggio universale per eliminare le barriere”. Ché nella cultura africana tradizionale la musica, la danza e il teatro siano inseparabili è evidente quando i ballerini ogni tanto parlano, anche se dicono cose incomprensibili in lingue incomprensibili. Talvolta urlano, battono i piedi, mentre le canzoni si alternano a pezzi registrati su cui Djénéba Koné canta o suona ancora dal vivo.
Rimanere a terra. I riferimenti sessuali sono evidenti e continui. Rientrano in quelli più generalmente animaleschi: ci sono dei lupi inquietanti che corrono sullo schermo trasformandosi in una montagna di male che sbava. Mentre i movimenti dei danzatori sono sempre così attaccati a terra – “il baricentro è mantenuto basso durante tutto lo spettacolo” ha commentato la mia amica, diplomata all’Accademia Nazionale di Danza – si alzano e cascano a terra continuamente. Lo spettacolo dura un’ora e sembra fisicamente duro, pieno di scatti, movimenti inconsulti, tremori portati allo stremo. Sudano, si toccano, sputano, si mettono le dita nel naso, si strappano i vestiti, si lavano i denti con il sewak – un bastoncino di Salvadora persica – lo spazzolino naturale.
Una scena molto intensa e toccante interpreta una violenza su una donna. Lei è bella, si è cambiata, esce dalla tenda con un vestito rosso, sorride tra gli uomini. Ma poi quegli uomini che sembrano non guardarla mentre sorride, la bloccano, la fermano, la violentano. Ma la violenza è tutta nella testa dello spettatore. I contatti sono minimi, tutto è immaginato, dalle cadute e dall’espressione di lei che si è fatta disperata. La violenza è poi ricordata. C’è l’assolo in cui lei è felice, sente su di sé una certa bellezza e soddisfazione, ma di nuovo trema, ha paura, si nasconde senza che nulla intorno a lei effettivamente succeda.
Imbattuti. C’è l’omosessualità, un duetto tra due uomini, che sembra un gioco: al contrario della scena con la donna c’è molto contatto e una forte dolcezza. C’è la baguette gestita come fosse un mitra, mentre il danzatore fa per scrivere ciò che appare sullo schermo/tenda: “Non importa quanto sia stretta la porta, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima”, il finale della poesia Invictus di William Ernest Henley. La stessa che fu fondamentale nella vita di Nelson Mandela, soprattutto durante la sua carcerazione a Robben Island e che lo stesso Eastwood utilizzò come titolo per il film a lui dedicato. Ci sono immagini stilizzate, ombre che lavorano in miniera, una macchina che trita uomini, bambini che sparano.
Una commistione di (auto)ironia e realtà che rende l’impatto forte, ma necessario. Perché mentre in una certa parte di mondo si fa di tutto per ometterlo, ovattarlo, nell’altra si esalta, perché non c’è nulla di cui non si dovrebbe parlare. È solo realtà.
La prima del Burkina Faso ha di certo colpito.
Alice Rinaldi
(15 febbraio 2012)