La sala Starlin Arush di Intersos era piena per la proiezione di Mare chiuso di Stefano Liberti e Andrea Segre in occasione del 20 giugno, Giornata Mondiale del Rifugiato. Tra il pubblico gli amici italiani e stranieri di Piuculture, organizzatrice dell’evento, ragazzi che hanno vissuto la dura esperienza dell’emigrazione da paesi in guerra come Zakaria e Omer, le ragazze di Teatro senza frontiere, compagnia teatrale di italiani e migranti, soci, spettatori, docenti universitari. A presentare la proiezione e la campagna Mai più respinti!, Nicoletta del Pesco, direttrice responsabile del settimanale online Piuculture, il presidente di Intersos Nino Sergi e Maddalena Grechi di ZaLab, moglie di Andrea Segre.
Globalizzazione dei diritti. “È sempre una grande gioia ospitare Piuculture, spero anzi che ci chiedano ospitalità sempre di più” dice Sergi. “Intersos è stata fondata il 20 giugno del 1992, quella che poi è diventata la Giornata Mondiale del Rifugiato, probabilmente era proprio destino che io mi occupassi di queste tematiche. L’ospitalità non è una cosa facile, ma bisogna farla. Soprattutto dobbiamo capire la paura, discutere sul perché si verifica. In un paese composto da 60 milioni di persone come l’Italia, come è possibile che si abbia paura di 5000 persone arrivate da altri paesi? Viene il legittimo dubbio che questa paura sia voluta, perché è quella che crea reazioni negative. Ma non è con la paura che si affrontano i problemi. Ormai c’è globalizzazione in tutto e per tutto, eppure la globalizzazione dei diritti stenta ancora tanto”.
“In questo film si documenta la paura italiana. Fondamentalmente paura per il futuro, poiché l’immigrazione è buona parte del futuro italiano. Con il Centro di accoglienza notturna A28 cerchiamo di dare asilo a ragazzi afghani in arrivo o di passaggio a Roma. L’altro giorno ho giocato a carte con un bambino di 4 anni e mezzo…” ma non riesce più a continuare Sergi, commosso dal ricordo. Aggiungendo soltanto “vanno al nord perché li trattano meglio, sennò si fermerebbero qui”.
“Sono orgogliosa di annunciarvi che questa è una delle 103 proiezioni di Mare chiuso che stanno avvenendo in contemporanea in tutta Italia” esordisce Maddalena. “ZaLab, di cui faccio parte, è una piccola associazione che si occupa in particolare delle violazioni dei diritti dei migranti e che ha prodotto vari documentari, tra cui Mare chiuso che in questa Giornata simbolica abbiamo voluto offrire gratuitamente. Tutto iniziò nel 2008 quando decidemmo di seguire le migrazioni che partivano dal Corno d’Africa, attraverso il Niger, fino in Libia. Arrivati lì ci accorgemmo per la prima volta dei respingimenti: notammo che le migrazioni avvenivano anche in senso opposto. Il documentario scaturito si intitola Come un uomo sulla terra, ed è stato realizzato in collaborazione con Asinitas onlus e sempre con il patrocinio di Amnesty International Italia, ed è la storia di un etiope, Dagmawi Yimer, che si è visto riconosciuto il diritto di asilo in Italia e oggi anche lui è regista di questa nostra idea di ‘cinema’: il video partecipativo, ovvero il racconto in prima persona, senza filtri.
Con Mare chiuso ci si rende conto di quanto sia diversa la realtà rispetto alla leggerezza delle parole di un politico, da Maroni – “rispettiamo tutti gli accordi internazionali, l’importante è non farli arrivare” – a Berlusconi – “i migranti si vedranno riconosciuti i loro diritti d’asilo in Libia” – fino a Gheddafi che disse “è gente che non scappa affatto da guerre”: quanti italiani si sono resi conto che grazie agli accordi Italia-Libia, molti uomini e donne sono morti in mare o hanno subito violenze e torture nei centri di detenzione libici? Durante i respingimenti non è stato possibile raccogliere testimonianze, qualsiasi giornalista era interdetto, ma dopo, quando alcuni di loro sono riusciti a fuggire dalle carceri libiche, ZaLab è riuscito a creare questo documentario-testimonianza.
Nuovo governo, stesso accordo Italia-Libia. Alcuni di loro sono riusciti a far conoscere le loro storie alla Commissione dei Diritti dell’Uomo, che a febbraio di quest’anno ha condannato l’Italia a un indennizzo di 15mila euro per ogni ricorrente. Questo non basta a dare giustizia agli oltre 2000 migranti respinti indiscriminatamente, molti sicuramente beneficiari del diritto d’asilo, essendo provenienti da paesi in guerra come l’Eritrea e la Somalia. Ma ciò che preoccupa ZaLab e Amnesty e che li ha spinti a promuovere la campagna Mai più respinti! – a questo link è possibile firmare la petizione – è che dalla condanna non è venuta nessuna pronuncia di segno opposto dal governo italiano, anzi, ad aprile 2012, passato assolutamente sottotono, la ministro dell’Interno Cancellieri ha ratificato un nuovo accordo Italia-Libia sostanzialmente analogo a quello berlusconiano. Il che è ancora più scandaloso se si pensa che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiati, considerando tutte le persone come “migranti”, anche se tra di esse vi sono eritrei, etiopi e somali, che fuggono da persecuzioni. Insomma, vi auguro buona visione, nei limiti del possibile, poiché è una bella botta nello stomaco”.
E Mare chiuso è così: “una bella botta nello stomaco”. Un film che dovrebbe davvero essere proiettato nelle piazze, poiché probabilmente pochi si aspetterebbero tali ingiustizie e tali violenze. Particolarmente massacrante è vedere la gioia di questi migranti in gommone quando vedono arrivare gli italiani – osannati come salvatori – trasformarsi subito in terrore. Il mistero di una telefonata che, come nota una ragazza eritrea, fa cambiare espressione ai militari italiani: dal “non vi preoccupate ora vi portiamo in Italia” al mutismo del “non parliamo inglese”, non vi diamo né acqua né cibo e ingannandovi, nemmeno foste bestie, vi riportiamo a Tripoli, dopo che avete speso soldi, energie e salute – tante le donne incinte e i bambini – per arrivare a un passo dalla Sicilia, una terra sicura. Perché non potevate fare altro se volevate salva la vita. Invece gli italiani con un mezzo sorriso, una bastonata e un medicamento, vi hanno riportato dai vostri carnefici. “Potevate lasciarci in mare allora”, racconta una donna eritrea, “è meglio morire in mare che in prigione, magari in mare lo trovi un animo buono che vuole salvarti”. L’atteggiamento italiano risulta davvero ambiguo, e forse è l’unica labile giustificazione, di chi davvero pensava e avrebbe agito in altro modo se non fosse stato comandato: “mi dispiace, dobbiamo eseguire gli ordini” dichiara un capitano. Il problema è sempre quello: se l’ordine è ingiusto sei un uomo o sei un automa? “Eravamo solo innocenti in cerca di una patria” dice un altro ragazzo ora confinato nel deserto, nel campo di protezione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Poi c’è un padre: cercava solo di raggiungere sua moglie che era riuscita ad arrivare in Italia, incinta al nono mese, poco prima dell’inizio delle pratiche dei respingimenti: lui è finito in un carcere libico. Gli ci sono voluti più due anni per riabbracciare la moglie e vedere per la prima volta la figlia.
Concluso il film, il pubblico è visibilmente turbato, Nicoletta del Pesco che pensava di far parlare i ragazzi che hanno vissuto lo stesso viaggio, piuttosto si scusa per averli coinvolti nella visione di esperienze così crudemente vicine alle proprie. Ma Zakaria, collega fuggito dalla Somalia, si alza lo stesso, con il suo solito garbo ci tiene a ringraziare tutti, poi punta gli occhi a terra e il suo sguardo è così forte e la sua voce così commossa che sembra davvero di visualizzare i suoi ricordi, i suoi deserti, le sue nuove speranze.
Alice Rinaldi
(21 giugno 2012)