La dama sta al Senegal come il calcio sta all’Italia. Incuriositi da questa inaspettata proporzione abbiamo incontrato quattro uomini senegalesi per sapere qualcosa in più di questa passione di portata nazionale. Scopriamo così che esistono tre differenti tipologie di questo gioco, a tre, a dodici e a venti. La prima costruita con delle linee, le altre due basate sulle caselle, 12 o 20. Insomma la nostra semplice dama sulla scacchiera è solo una modalità di quello che, per i senegalesi, è un vero e proprio sport nazionale e che, a livello mondiale, li porta a competere con campioni del calibro dei giocatori russi.
Oumar Cissokho e Laye Wane, senegalesi di 37 e 40 anni, vivono in Italia dal 2003-2004. Ci accolgono a casa di Laye, offrendoci, in bicchieri di vetro, un profumato the africano. Iniziano così a raccontarci della loro partenza dal Senegal, volontaria, date le condizioni socio-politiche del loro paese, che non richiedono alcuna fuga, del loro desiderio di lavorare al di là dei confini del Senegal, della loro famiglia e del loro gioco nazionale, la dama.
Il gioco della dam s’impara da bambini in Senegal, “bastano dei tappi di bottiglia e un dito per tracciare le linee” afferma Oumar. Per spiegarcelo basta un foglio, una penna, delle noccioline (ovvero le pedine) ed Oumar batte Laye in una rapida partita di dama a tre.
Dam, una passione familiare. Mentre sgranocchiamo le pedine Laye ci racconta la storia del padre, che giocava (e gioca) a dama a 20. Le partite erano lunghe, e duravano dalle 3 alle 4 ore, “ a volte la dama non è considerata un gioco per bene perché fa dimenticare le preghiere e altri doveri.” Probabilmente questi i motivi principali per i quali, nonostante le vittorie del marito, la madre di Laye gli impedì persino di partecipare ai tornei nazionali. Nonostante ciò, Laye ricorda che “mio padre è un modello nel nostro paese, per il suo lavoro di preside e per la sua passione per la dama. Pensare che quando ha vinto la competizione regionale persino il sindaco l’ha festeggiato”.
Il lavoro in Italia. Oumar e Laye hanno imparato a giocare a dama sin da piccoli ma, da quando sono in Italia, riescono a dedicarle poco tempo, dato che il lavoro assorbe gran parte del loro tempo. Infatti, si occupano entrambi di assistenza agli anziani ed ai disabili. “Mi piace il lavoro che faccio, mi realizza e mi fa sentire utile”, sottolinea Oumar. E Laye evidenzia sorridendo “gli anziani mi hanno insegnato la storia d’Italia. E poi mi dicono che sono un musulmano diverso da tanti perché non sono fondamentalista. Ed io sono contento di essere senegalese anche perché abbiamo saputo realizzare la coesistenza pacifica tra religione islamica e cattolica.”
“Ritornare in Senegal? Forse, ma se tornassi lo farei per sfidare papà a dama, anche se so che vincerebbe lui” afferma Laye.
L’appuntamento con Marya Sine e Moustapha Sow è a Piazza Vittorio Emanuele, dove, in una rovente giornata d’Agosto, si raccontano ben oltre la dama. Sostiene infatti Moustapha che “per rilassarmi preferisco giocare a belote, un gioco di carte francese o anche a calcio, un gioco di movimento, molto meglio rispetto alla più cerebrale dama.”
Sow Moustapha, classe 1975, dal 1998 in Italia, è critico nei confronti della gestione delle politiche d’immigrazione ed è ciò di cui vuole parlare. Vivere qui non è un gioco, e lo sa bene “una volta sono entrato in un negozio di frutta e verdura, avevo bisogno degli odori per cucinare. La proprietaria mi ha guardato allarmata e, scuotendo le mani, mi ha detto che non le serviva niente. Le ho risposto che ero io ad aver bisogno di lei, degli odori, dovevo preparare il pranzo. A quel punto si è prodigata in mille scuse e mi ha servito con celerità. Il pregiudizio sul nero che può solo vendere calzini ed accendini è ancora radicato nell’immaginario collettivo.”
Ricorda gli errori fatti appena arrivato in Italia ma rivendica la possibilità di riscatto senza che una legge retroattiva possa spazzare via le conquiste raggiunte con fatica, com’è accaduto nel 2008. Arrivato in Italia con una laurea in lingue oggi porta il cibo nei centri d’accoglienza. Si è costruito un vita “Mia moglie è italiana e per sposarci siamo dovuti passare per lo Stato di San Marino e poi convalidarlo a Roma. Ma che senso ha?” e non ci sono risposte da dargli.
Del paese d’origine manca soprattutto il modus vivendi “si vive meglio in Senegal, c’è un calore umano maggiore. Se so che qualcuno non ha cibo quel giorno io glielo porto, è una solidarietà naturale, funziona così da sempre”.
Marya Sine, trentenne, è in Italia da cinque anni. Come molti è partito dal Senegal per darsi un’opportunità professionale, è andato prima in Francia, quindi Bergamo ed infine a Roma. Nel suo paese lavorava come metalmeccanico, in Italia collabora alla manutenzione degli alberghi.
In Italia con lui c’è anche sua moglie, senegalese, “Anche lei lavora, solo adesso è in aspettativa perché è incinta.” Ed è di fronte all’arrivo di un figlio che si pongono nuove ed importanti domande: come crescerlo, cosa insegnargli, come educarlo. “Vorrei che mio figlio crescesse in Senegal. Qui vedo molta maleducazione e non vorrei che lui o lei ne fosse influenzato negativamente” afferma chiaramente Marya.
Quattro storie diverse, quattro lenti differenti per focalizzare la medesima voglia d’inserimento, d’integrazione, di famiglia passando per la nostalgia di casa e cercando di sconfiggere un grande ostacolo: la burocrazia.
Interviste di Zakaria Mohamed Ali e Piera Francesca MastantuonoRedazione Piera Francesca Mastantuono