Dopo un rallentamento nel triennio 2008-2010 delle migrazioni verso i 23 paesi dell’Ocse – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – il 2011 ha segnato una nuova ripresa dei flussi in entrata, con poche eccezioni quali Italia, Australia, Nuova Zelanda e Canada. È quanto emerge dal rapporto “Prospettive sulle migrazioni internazionali 2012” svolto dall’Ocse e presentato da Jonathan Chaloff, della divisione migrazioni internazionali, nella sede del Cnel – Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – la mattina del 19 settembre.
Dati statistici A confermarsi principale paese d’origine è la Cina, al 10%, seguita dall’India, Polonia e Romania, con l’Asia che sale dal 17% della metà degli anni 2000 al 30%, con motivazioni da far risalire in gran parte all’eccedenza di manodopera del continente. Gli spostamenti dovuti alla libera circolazione interna all’Unione Europea si fermano al 20%, in forte calo, mentre arrivano al 36% quelli a scopo di ricongiungimento familiare. Il numero di richiedenti asilo si è abbassato rispetto al 2009, con la Serbia, Afghanistan e Cina su tutti, almeno fino alla “primavera araba”, che ha visto un incremento di domande del 20%. La Francia resta la meta più ambita, davanti a Stati Uniti e Germania. Le maggiori criticità riguardano però la disoccupazione, specialmente di lungo periodo, che varia tra il +14 e il +30% annuo tra gli immigrati, con le donne più abili nell’ammortizzare gli effetti della crisi. Il numero di studenti segna invece un +6%, con Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia sul podio delle presenze.
Il caso Italia comparato al resto dell’Ocse L’Italia ha visto una diminuzione dei flussi migratori permanenti del 10% tra 2009 e 2010, addirittura del 38% se prendiamo a riferimento il 2007, a fronte di una media del 14% nell’area Ocse. In linea la percentuale rispetto alla popolazione, allo 0.5%. Il 40% degli arrivi è stato per motivi di lavoro, circa il doppio degli altri paesi, ma questo è in gran parte spiegabile con gli ingressi ritardati di persone con autorizzazione risalente ad anni precedenti e le regolarizzazioni di colf e badanti del 2009. Maggiore flessione, 20%, per le migrazioni stagionali, contro un 4% generale. L’aumento della disoccupazione tra gli autoctoni è stato dal 6.6% del 2008 all’8% del 2011, mentre per la popolazione straniera si è passati dall’8.5 all’11.7%. I giovani immigrati hanno un tasso del 50% superiori rispetto ai pari età italiani. Per quanto riguarda le iscrizioni di studenti internazionali ci troviamo solo al nono posto, ma l’ultimo biennio ha comunque confermato un trend in crescita. Peggiorano le qualifiche dei migranti in entrata, un po’ come in tutta l’Europa del Mediterraneo, ma in controtendenza con quanto avviene nel resto del continente, Nord America e Australia.
Chiavi di lettura “I governi puntano solo su misure restrittive”, commenta Antonio Marzan, presidente del Cnel, “ma non si può ignorare il problema della disoccupazione, che rischia di causare tensioni sociali, specie in periodi di crisi”. Un grande merito del rapporto sta, secondo Marzan, nell’aver “differenziato tra i settori, di non parlare di immigrazione come di un contenitore unico”, in modo da potersi concentrare su “quelli più dinamici. Dalle politiche di integrazione conseguono quelle di sviluppo, con benefici per tutta la popolazione”. Ciò che serve per Giorgio Alessandrini, presidente dell’organismo nazionale di coordinamento del Cnel per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, è “un aggiornamento dell’ordinamento”. Pur riconoscendo gli sforzi del governo attuale, ulteriori ne andrebbero fatti “sulla scuola, affinché le belle circolari siano supportate da risorse ed interventi concreti” e sul lavoro, “programmando i flussi, liberamente da speculazioni, senza avere una visione solo mercantile, favorendo le migliori competenze e agevolando la transizione dal mondo degli studi”. Concorde Natale Forlani, direttore generale immigrazione e politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, per cui “la qualificazione dei flussi andrebbe legata a domanda e offerta, come già avviene in diverse realtà locali”, tramite accordi anche con paesi non poveri come la Cina, con vantaggi reciproci “nella formazione della nuova classe dirigente”.
Le risposte dalla politica Livia Turco, onorevole del Pd, ha le idee chiare sugli interventi necessari per arrivare ad una “via italiana alla convivenza”. Dal punto di vista lavorativo si dovrebbe “investire sul capitale umano, senza ragionare solo sui numeri dei flussi e superare le politiche specifiche” al fine di realizzare “alleanze con obiettivi condivisi, proprio perché in tempo di crisi si rischiano divisioni”. La scuola dovrebbe “promuovere un approccio interculturale. La cittadinanza è una priorità assoluta, ma senza perdere di vista le condizioni complessive dei giovani”. Una grave lacuna è a livello normativo, “abbiamo leggi di venti anni fa, alcune da abrogare del tutto come la permanenza nei Cie per 18 mesi e il reato di clandestinità, costose ed inefficaci”. Infine arrivare ad un sistema di diritti e doveri “che dia certezze per non soccombere alle emergenze, equilibrando inclusione e sicurezza”. “L’inadeguatezza è sia a livello interno che internazionale”, ritiene Alfredo Mantovano, ex sottosegretario del ministero dell’Interno nell’ultimo governo Berlusconi. “Ci vuole collaborazione con i paesi di transito, superando il dogma del primo arrivo, altrimenti gli stati europei del Mediterraneo, già in difficoltà economiche, subirebbero il maggior peso”. Senza dimenticare che sull’accoglienza è un continuo scarica barile “dall’Unione Europea all’Italia e da questa agli enti locali”. Centrale per Rocco Buttiglione, deputato Udc e vice presidente della Camera, è il tema della famiglia e dei ricongiungimenti, via per “ridurre i crimini, tenere unito il nucleo familiare è uno dei modi per prevenirli, insieme al dialogo culturale”.
Gabriele Santoro(20 settembre 2012)