“Di persone che sentono le voci ne vedo tutti i giorni. Spesso sono voci di suicidio, di grave sofferenza. Ve ne sono altre di tipo bizzarro, che hanno bisogno di un lavoro interpretativo diverso, così come avviene per i pazienti italiani”. E’ chiaro il riferimento a Kabobo, il trentunenne ghanese che, a Milano, lo scorso 11 maggio ha accettato per strada dei passanti. Nel suo caso le voci lo incitavano ad uccidere. “Non mancano episodi rischiosi per me e per lo staff del centro ma questo fa parte del mestiere. Le minacce che ho ricevuto sono patologiche, ad esempio un giovane sentiva le voci e vedeva il padre, il percorso psicoterapeutico e farmacologico è andato bene e tutto è sparito. Gli era rimasto un forte senso di vuoto e mi accusava di avergli tolto ciò che lo teneva in vita. Con il tempo si è calmato e adesso mi saluta con affetto profondo”.
Giancarlo Santone è psichiatra e coordinatore del centro Salute Migranti Forzati – Samifo, nato nel 2006 dall’intesa tra asl Roma A e Centro Astalli. Situato in via Luzzatti 8, fornisce servizio di medicina generale, ginecologica e psicologica per richiedenti asilo e rifugiati. Vi è inoltre la sezione dedicata alle vittime di tortura con le quali lo staff del Samifo intraprende percorsi singoli: per un anno assistono e supportano il migrante, preparandolo inoltre al colloquio con la Commissione esaminatrice della richiesta d’asilo.
Il trend è di 1200/1500 nuovi utenti l’anno e circa il 20% sul totale dei richiedenti asilo ha subito torture, si stimano almeno 3400 su 17mila nel 2012. “Arrivano tramite il passaparola e l’invio da parte del terzo settore, a volte anche per informazioni che esulano dal servizio.” Oltre al Samifo i servizi di sostegno sono offerti a Roma solo da altri due centri l’Inmpi del San Gallicano e Ferite invisibili della Caritas. “Il reato di tortura non è nemmeno contemplato dalla legge italiana” sottolinea Giancarlo Santone, che ogni giorno si confronta con persone con tracce indelebili, fisiche e psichiche, di violenze inaudite.
“Insieme alle ferite si portano dentro il senso di colpa e la preoccupazione verso la famiglia rimasta in patria”, spiega Santone che racconta di un suo paziente, un oppositore politico togolese sottoposto a pesanti sevizie – tra le quali la Falaqa, tortura che consiste nel dare ripetute percosse sotto la pianta del piede – “il cui unico pensiero è ‘non dovevo andar via’, preoccupato per le donne della famiglia, sulle quali attraverso la violenza sessuale potrebbero vendicarsi o minacciarlo da lontano”.
“Quante vittime di tortura vengono effettivamente individuate?” si chiede il dottor Santone, che prepara i propri pazienti al colloquio che deciderà l’esito della richiesta d’asilo. “Ricordare date, persone, strutture non è così semplice se ci si ritrova di fronte a domande che riportano dentro situazioni di violenza e che fanno riemergere emozioni dolorose ed eventi traumatici come le torture subite”. Il rischio di confondersi, non ricordare o dare risposte di ogni genere è molto alta.
L’ansia è troppo elevata e le contraddizioni in Commissione vengono giustamente valutate come non credibilità. Si rischia il diniego e anche questo incide sulla salute mentale perché il ritorno significa il rischio di nuove torture se non della morte.” E’ per questo che oltre a lavorare con il paziente per rielaborare la propria storia nei casi più dolorosi e difficili il Centro allega un’attestazione delle condizioni psichiche del richiedente. “Realizziamo anche un documento di medicina legale che certifica i segni di violenza rintracciati sul corpo.”
Le donne Il 25% degli utenti sono donne, molte di queste fuggono da matrimoni forzati che in paesi come Senegal e Mauritania sono la prassi. “Subiscono violenze non solo dal marito, la rete familiare e sociale legittima e pratica la sottomissione coatta delle donne.” E coloro che si ribellano, se sono fortunate, riescono ad arrivare in Europa.
La mediazione culturale Il sistema di mediazione culturale, attuato grazie al supporto dei progetti di Roma Capitale e agli operatori del centro Astalli, permette di coprire un ampio raggio di idiomi e dialetti parlati nell’Africa occidentale e sub-sahariana, come il wolof, malinke, mandingo e bambara, nel corno d’Africa – tigrino e amarico – fino a quelli dell’Asia centrale, come il farsi, oltre ovviamente ad inglese e francese. “Preferiamo avere collaborazioni fisse con i mediatori, il lavoro a ‘spot’ in situazioni importanti non lascia entrare nei dettagli emotivi”.
Un aspetto fondamentale è la tutela della salute degli stessi mediatori, “era prevista anche una supervisione esterna”. Sostenere il carico di storie così difficili, anche solo ascoltandole non è facile. ci sono inoltre aspetti culturali e psicologici che influiscono nel rapporto con il paziente. “I musulmani, soprattutto afghani, hanno un approccio particolare per quanto riguarda il genere. Se presente una mediatrice donna può non essere considerata, nemmeno per il saluto, o viene vista priva di credibilità. Può così diventare difficile affrontare discorsi su tematiche delicate o intime”.
In alcune lingue certe parole nemmeno esistono, in bambara ad esempio diventa impossibile riferirsi alla masturbazione, in altri casi bisogna usare altre formule ad esempio: malattie “trasmesse a letto” anziché sessualmente. Infine c’è anche diffidenza tra connazionali. Chi viene da situazioni politiche di assenza di libertà guarda con sospetto chi proviene dal suo stesso paese, potrebbe essere un agente del regime incaricato di riportare i dissidenti in patria.
Programmi di assistenza e integrazione? “Offriamo un servizio terapeutico e di assistenza a tempo, di un anno, un periodo che serva per diventare autonomi, imparare la lingua, orientarsi nella città, trovare lavoro”. Ma, anche chi ottiene lo status di rifugiato ricade nel fluttuante universo dell’incertezza. Sono pochi attualmente i progetti, come Integra, che cercano di colmare le lacune profonde del sistema di integrazione dei rifugiati nel tessuto sociale italiano.
“Il giovane che mi accusava di avergli portato via il padre ha partecipato a dei progetti di inserimento lavorativo, un corso di formazione retribuito, seguiti poi da uno stage di quattro mesi alla Feltrinelli. Adesso dorme clandestinamente al CARA. Perché è terra di nessuno, scavalcando di notte si mescola alle mille persone e ha un tetto sopra la testa”. Le occupazioni di strutture sono un’altra soluzione fai-da-te. Agnanina, Collatina, l’Ararat dove ci sono i curdi, vicino alla stazione Termini le persone provenienti dal Corno d’Africa.
Il riconoscimento dei titoli di studio “Sono soli, non hanno la sponda sociale, la famiglia il fratello, i genitori. Il riconoscimento dei titoli è un problema immenso, un percorso privilegiato per rifugiati vulnerabili potrebbe essere una soluzione efficace. Così come le imprese dedicano per legge un tot di posti di lavoro alle persone invalide, bisognerebbe farlo per i rifugiati. Sembra una cosa brutta da dirsi ma sarebbe un punto di partenza”, va tenuto presente che molti rifugiati sono attivisti e professionisti che hanno ostacolato i regimi nel loro paese e possiedono un grande bagaglio culturale e profondo senso critico.
M. Daniela Basile e Gabriele Santoro(11 giugno 2013)
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