“Viviamo in un mondo completamente nuovo, che neanche la generazione precedente ha conosciuto, un mondo di emigrazione ed immigrazione”. L’imam Mohamad Bashar Arafat, insegnante all’Università Notre Dame del Maryland e cofondatore della Cecf – Fondazione per lo scambio e la cooperazione fra civiltà – apre così l’incontro sull’islam mondiale tenutosi il 9 ottobre presso l’associazione migrAzioni, in via Zanzur 30.
È vero, Maometto si spostò dalla Mecca a Medina, lo stesso Mosè fuggì dall’Egitto, nella storia delle religioni troviamo “migranti” celebri. Ma i numeri del XXI secolo sono altra cosa. Trentatre milioni i musulmani in Europa, otto in America, “e altrettanti che vorrebbero andarsene ma non possono”, continua l’imam Arafat, “rimangono in Egitto, Tunisia, Medio Oriente”, zone piuttosto calde, con in mente solo “il visto per gli Stati Uniti”.
La tecnologia contro l’integrazione? Si è parlato molto del ruolo dei social network nella mobilitazione durante le rivolte nel nord Africa. Ma a volte negli aspetti più quotidiani si celano gli aspetti nocivi, come accade per l’integrazione di una comunità spostatasi in un altro paese. “Fisicamente molti stanno in Italia o in altre destinazioni, ma è come se fossero rimasti a casa, tutto il giorno a parlare su Skype. Non che sia sbagliato mantenere i contatti, anzi, ma quando non si comprendono le differenze culturali e ambientali in cui ci si trova è un problema”. Prima di tutto per superare l’ostacolo linguistico, “negli Usa ci sono cerimonie in urdu, o in arabo, vengono capite solo dalle vecchie generazioni. Si dovrebbe parlare inglese, come italiano in italia”.
Lo spartiacque 11 settembre Immerso da ormai molti anni nella realtà americana, l’imam Arafat ha potuto osservare ancora meglio i cambiamenti che l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 ha causato nel rapportarsi con gli islamici, ovviamente più evidenti negli Stati Uniti. “Prima i musulmani non si aprivano, contavano sui diritti costituzionali garantiti, perdendo l’opportunità di interagire”. Poi sono esplosi i crimini d’odio, a volte rimasti sotto la forma embrionale del forte pregiudizio, “l’americano medio ci guardava come fossimo tutti Bin Laden, terroristi ed estremisti”. Ma è servito per attuare programmi congiunti con la Chiesa, mirati al dialogo interreligioso ma anche interculturale e sociale.
L’apporto alla comunità Diverse cliniche negli States sono state fondate da migranti musulmani, adiacenti alle moschee, “molti sono dottori, l’approccio culturale è differente, ad esempio contro il sistema sanitario e assicurativo locale – particolarmente restrittivo – con un importante contributo all’economia, perché ogni dollaro investito ne frutta quattro e la società tutta apprezza”. Diversa la situazione in Italia, dove l’assenza di un’intesa con lo Stato non permette nemmeno la libera costruzione di moschee, per cui i garage vengono adattati allo scopo.
Ma nonostante i passi avanti le sfide non sono certo finite, gli stereotipi continuano, il più celebre quello su Obama, “dicevano che fosse musulmano, che non c’era da fidarsi perché il suo secondo nome è Hussein. Per fortuna la maggioranza degli americani è progredita. Il mio compito è lavorare sulle diversità, porgendo la mano, non guardo alle differenze religiose come un ostacolo”. Facendo autocritica l’imam riconosce che spesso l’atteggiamento sbagliato è anche da parte degli islamici, “è scoraggiante. Se ti apri all’occidente c’è chi ti da del venduto”. Ma da arabo/americano Arafat è in una posizione privilegiata, “posso essere un ponte”.
Il ruolo delle istituzioni religiose “Spero che nelle chiese e nelle moschee si insegni il messaggio della considerazione delle diversità, anche se sono istituzioni che su alcuni aspetti mentali devono essere riformate. Il Corano insegna il rispetto delle altre religioni e ogni imam lo deve promuovere. Altrimenti si filtra la realtà con gli occhi distorti dei media, chi non vuole ascoltare è perché ha avuto questi cattivi esempi. Il Corano recita anche che Dio ci ha creato diversi per una ragione, quella di poterci conoscere”.
Cosa pensano i non musulmani dell’islam? Prima dell’incontro Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore culturale pakistano nonché fondatore di migrAzioni, ha anticipato i temi del confronto culturale chiedendo ai non musulmani quale fosse la loro visione sull’islam. G. e T. vengono da due realtà particolari, nigeriano il primo, pakistano il secondo, paesi dove la minoranza cristiana è spesso sotto la minaccia terroristica. “Si ha il pregiudizio sul musulmano che vuole convertirti”, dice G., “ma questo deriva dalla colonizzazione britannica, che usava la popolazione islamica, più disciplinata ed organizzata, per conquistare il resto del paese. Nonostante il conflitto, il rapporto quotidiano con le persone è di totale rispetto”.
“I musulmani devono bloccare il terrorismo”, continua T. “nascondere la realtà aggrava la situazione. Tutti devono alzare la voce e dire che il vero islam non c’entra nulla”. Anche T. nel contatto con la gente comune non aveva alcun problema, “vivevo insieme a loro, siamo fratelli”. S. è colombiana, solo in Italia ha compreso meglio la realtà: “il mio compagno è iraniano, anche se ateo. E la cosa che più mi ha colpito è il rito della preghiera. Dalla tv si sapeva solo delle stragi”. “Il mio approccio è stato delicato”, aggiunge B., mediatore, “nel senso che sono venuto a conoscere l’islam dalla gente e non dalle letture dottrinali, né dall’inquinamento dei media. La tradizione è stata fondamentale nella salvaguardia di testi classici, gli aspetti peggiori sono stati strumentalizzati e dopo le nefandezze europee non possiamo certo ergerci col dito puntato”.
Gabriele Santoro(10 ottobre 2013)