“I diritti della lingua sono diritti umani, ma il problema è attuarli”. Lo afferma l’esperto per l’intercultura MIUR Vinicio Ongini riprendendo le parole di Francesco De Renzo, ricercatore a La Sapienza. Il pluralismo linguistico e i metodi didattici sono stati i temi del convegno organizzato dal Centro Studi Emigrazione il 12 dicembre, a Roma.
Per gli studenti stranieri che non conoscono la lingua italiana la scuola dovrebbe essere il luogo principale in cui apprenderla, ma è proprio nelle ore di lezione che i ragazzi incontrano maggiori difficoltà. L’eterogeneità non è un problema. Questo è il primo punto da chiarire. La sfida di riuscire a far convivere più lingue non è recente. “Prima l’interazione era tra dialetti perché i flussi migratori erano interni”, precisa Vinicio Ongini.
Un discorso parallelo ma ancor più delicato è quello sulla diversità. Silvana Ferreri, professoressa di Didattica delle lingue presso l’Università della Tuscia di Viterbo, distingue la pluralità, di per sé positiva, e le differenze di risorse, di religione, di culture educative, di identità. Queste creano dei conflitti che devono essere affrontati. “In ogni caso è paradossale parlare in termini negativi del pluralismo linguistico quando ci sono famiglie che fanno studiare l’inglese o il francese in scuole private e costose. È come se esistesse un plurilinguismo buono e uno cattivo”.
Il tipo di approccio alla questione è fondamentale anche secondo il linguista Tullio De Mauro che si concentra sulle cifre relative all’immigrazione. “Un atteggiamento di scarsa simpateticità sta proprio nei numeri”, nel nostro paese gli immigrati costituiscono circa l’8 per cento della popolazione regolare, quasi cinque milioni, ma quando viene chiesto agli italiani di quantificare il fenomeno parlano del 20 per cento, i meno istruiti addirittura del 25 per cento. Accanto alla percezione distorta delle cifre, c’è una questione sostanziale: “Lo stesso ceto dirigente non percepisce gli elementi positivi dei flussi migratori. Siamo poveri di strumenti di inserimento nella società e non va meglio nelle scuole. C’è bisogno di sensibilizzare gli insegnanti con programmi di formazione pensati perché capiscano qualche parola delle lingue dei ragazzi che hanno in classe, almeno per comunicare”.
Per Massimo Vedovelli, docente di linguistica educativa e di semiotica all’Università per stranieri di Siena, i modelli tradizionali di insegnamento nel mondo globale non rispondono più alle esigenze della società. E azzarda un’ipotesi: “Dalla crisi si potrà uscire grazie agli immigrati che lavorano. Non so quale sarà l’Italia linguistica tra trent’anni, ma in un mercato globale c’è bisogno della possibilità di interagire globalmente. Se l’Italia non sfruttasse le opportunità del pluralismo linguistico, rischierebbe di rimanere arretrata”.
Rosy D’Elia
(19 dicembre 2013)