Dall’ottimismo che tre anni fa esatti portò frettolosamente a coniare il termine “primavere arabe”, mai accettato negli ambienti storico-politici ed accademici, si è arrivati ad ironizzare sul fatto che si trattasse in realtà di un “inverno arabo”, o comunque di un autunno inoltrato, nemmeno fossimo nel drammatico film di Darren Aronofsky “Requiem for a dream”, in cui la scansione temporale della trama non contempla la stagione della rinascita.
Instabilità e insicurezza in Tunisia e Libia, un governo transitorio militare in Egitto che ha rovesciato il legittimo risultato elettorale della Fratellanza Musulmana, una guerra civile in Siria di cui ancora non si vede la fine sono le ragioni che altrettanto superficialmente hanno fatto parlare l’opinione pubblica – almeno occidentale – di fallimento delle insurrezioni popolari, cioè dell’iniziale spinta al cambiamento arrivata dal basso coadiuvata dalla tanto decantata dirompenza dei social network.
Insomma, la maggior parte dei media non ha perso l’ennesima occasione di dimostrare miopia, secondo Gennaro Gervasio, storico studioso dell’Egitto repubblicano e docente presso l’Istituto Universitario Britannico del Cairo, intervenuto il pomeriggio del 10 gennaio presso l’Istituto per l’Oriente C.A. Nallino in occasione dell’incontro che nel terzo anniversario delle rivolte nel nord Africa ha cercato di fare un punto della situazione.
“La stampa italiana ha scritto diverse corbellerie, o per errate traduzioni dall’inglese o prendendo posizioni che hanno portato ad un’informazione becera”, attacca Gervasio. Ma non è solo questo, nell’analisi socio-politica ci si è concentrati sopratutto su quanto stia avvenendo “ai vertici governativi, trascurando le trasformazioni culturali e dei costumi che stanno coinvolgendo la popolazione civile, proprio quella che trentasei mesi fa si rese per la prima volta protagonista diretta della vita del proprio paese”.
“Le acque ancora si muovono, pur in un processo che si sta ri-solidificando”, spiega Gervasio da osservatore immerso nella realtà locale egiziana. Ad esempio nella produzione artistica, che ora usa canali alternativi a quello ufficiale ministeriale, dove anzi non è visto di buon occhio chi si rivolge alle istituzioni. “Il malcontento verso i tecnocrati è segno di una disgiunzione fra il governo e l’esercito che fa da schermo alla presidenza ad interim: i primi perdono consenso, il secondo lo guadagna”.
Il rischio principale è che gli slogan di giustizia sociale, “in realtà partiti più da lontano, dal 2007/2008”, possano essere incanalati nel proselitismo della precaria transizione, a pochi giorni dal referendum sulla nuova Costituzione. Ma “il rapporto tra governatore e governato sta cambiando, nonostante l’avviamento della macchina della propaganda”. Sono diversi i gruppi che più o meno forti stanno cercando di portare avanti il processo rivoluzionario – o come si voglia chiamarlo, già che anche il termine “rivoluzione” non soddisfa tutti, almeno per ora.
Si propagano manifestazioni di operai, ma ancora molto di nicchia, in periferia, fuori dai grandi circuiti mediatici. C’è chi parla della proliferazione di centinaia di organizzazioni sindacali, “ma la forbice fra sindacalisti e lavoratori è ancora enorme e sull’efficacia effettiva si sa poco”. Altri antagonisti sono stati gli ultras, i tifosi delle squadre di calcio, abituati agli scontri e quindi propensi all’azione nei periodi più caldi. “Ma quanto sono politicizzati?”. Ciò che è sicuro è che il numero dei coinvolti sia aumentato a dismisura, “da 2 a circa 30 mila”.
Poi ci sono i “social non movement”, le ali più emarginate e periferiche della popolazione, comunque con un loro ruolo. “Alcuni nemmeno sono registrati all’anagrafe, vivendo in slums a 40-50 km dai grandi centri, molti hanno scoperto le città per la prima volta”. Impossibile non citare la resistenza femminista, “che dalla denuncia delle violenze sta passando al combattimento sul terreno”.
Più defilati troviamo i copti, che dopo la paura legata alle persecuzioni subite hanno optato per “l’appoggio ai militari, dettato più dall’islamofobia, proseguendo una tradizione attivista parallela al resto del paese anche nelle fasi post-rivoluzionarie”. Senza limitarsi a queste divisioni schematiche, “la ricerca è sempre aperta, il punto è investigare dove il cambiamento è vivo, cercando di trovare un coordinamento”.
“L’Egitto non è certo stato pacificato”, chiude Gervasio, “la situazione è polarizzata ed il contesto confuso. Ci vuole ottimismo cieco per supportare il regime, difatti se si parla ancora di rivoluzione è perché ci sono sempre forze che chiedono diritti in prima persona, senza filtri ed intermediari per trattare con uno Stato padrone”.
Adriano Di Blasi(11 gennaio 2014)
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