Suor Eugenia e le migranti del C.I.E. di Ponte Galeria

Donna al Cie di Ponte Galeria
Donna al Cie di Ponte Galeria

Ammazzare il tempo prima che sia lui a farlo. È questa la logica che c’è dietro le borse fatte con le lenzuola di carta del C.I.E. di Ponte Galeria, dalle immigrate cinesi. “Nei centri di identificazione e di espulsione gli ospiti vivono come larve. Passano tutto il giorno distesi sui propri letti, senza nessuna attività, in attesa di un verdetto: rimpatrio o possibilità di rimanere in Italia. Quando c’è il sole qualcuna si sdraia fuori, distesa a terra, in queste gabbie, dove gli elementi imperanti sono il cemento e il ferro delle sbarre”. A raccontarci la vita nei Cie, nell’ala femminile ma non solo – è suor Eugenia Bonetti. “Ho lavorato per ventiquattro anni in Africa, nelle missioni e non ho mai pensato che nel mio Paese, vi fosse una missione così dura, dove donne schiavizzate dai mercanti del sesso, potessero essere ridotte di nuovo in schiavitù da un sistema di detenzione così terribile”. Suor Eugenia, balzata ai clamori della cronaca quando, dal palco della manifestazione del movimento Se Non ora Quando, scaldò i cuori con un discorso sulla dignità della donna. Quella volta furono applausi a non finire. In realtà suor Eugenia – missionaria della Consolata – dal 2000 è responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane (Usmi). Coordina una rete di 250 suore di 70 diverse congregazioni, che operano in più di cento case di accoglienza.  Tornata in Italia nel 1993, non ha smesso mai di occuparsi di tratta di donne. Dal 2003 opera nel C.I.E. di Ponte Galeria dove “tutti i sabato pomeriggio andiamo dalle ragazze e cerchiamo ogni volta di creare un clima di festa per spezzare la tensione e la monotonia che le devasta”.

Suor Eugenia
Suor Eugenia

“All’inizio gli immigrati condotti al C.I.E. rimanevano per 30 giorni, poi la legge portò il limite fino a 60. Allora era passabile. Oggi chi viene portato qui può rimanere fino a diciotto mesi. Diciotto mesi lasciato qui come un pacco postale. Senza alcuna attività da svolgere, in un posto che è peggio del carcere”. Suor Eugenia va ad incontrare le ragazze con un gruppo di 10-15 suore, che parlano diverse lingue. Stanno con loro due ore.  Ci racconta che le ragazze cinesi, molto laboriose, fanno delle striscioline con le lenzuola di carta, poi prendono una forchetta di plastica, tolgono i due denti centrali e con i pezzettini di carta arrotolata fanno delle bellissime borse. “Nel C.I.E. ci sono tantissime ragazze che vengono dalla Nigeria. Ingannate dai trafficanti e dalle madame, hanno contratto un debito di 60-70 mila euro. Per ripagarlo sono state costrette a lavorare in strada. Oggi, nei C.I.E., sono in attesa di capire se e quando torneranno nella terra d’origine”. Sono arrivate con niente, dopo un viaggio scalze attraverso il deserto “verso la terra promessa: l’Europa”. Vengono imbarcate su un aereo di ritorno con un sacco nero della spazzatura dove hanno messo quelle poche cose che hanno raccolto.

“Le cose sono importanti. Andarsene con un sacco nero vuol dire che anche loro sono spazzatura. Noi cerchiamo di dare almeno delle borse decenti. Non basta. Da settembre 2013 abbiamo iniziato a lavorare a dei progetti di rimpatrio assistiti, insieme alla Caritas e con i fondi della Cei. Cerchiamo di far in modo che le donne nigeriane, una volta messo il primo piede sulla loro terra natale, possano trovare qualcuno ad attenderle”. Continua suor Eugenia “ed allora ad aspettarle ci sono delle nostre suore. Da settembre ne abbiamo rimpatriate diciotto: quattro mamme con dieci bambini, poi altre quattro mamme. Una di loro aveva il sogno di fare la parrucchiera, oggi a Benin City ha un suo negozio”.

La situazione nell’ala maschile la conosciamo marginalmente, perché non operiamo lì. Quello che so è che il clima è molto più teso perché il numero degli ex detenuti è alto. Persone che sono state in carcere per sfruttamento, droga, violenze. Mi torna sempre in mente la storia di quell’immigrato che, dopo aver scontato una pena di 26 anni in carcere, viene portato per altri 6 mesi al C.I.E. per essere identificato. Mi chiedo, ma non avevano il tempo per identificarlo prima. Questo offre il senso di cosa siano i C.I.E.. Luoghi di parcheggio dimenticati da tutti e di cui nessuno ha interesse affinché cambino”.

“Negli anni vissuti in Africa ho visto donne provate dalla miseria, dalle violenze, ma mai così svuotate della loro dignità”. Chissà per quanto ancora Suor Eugenia sarà chiamata a cercare di trovare ogni occasione – natale, pasqua, festa della mamma, della donna – per creare dei momenti che rompano la monotona disperazione. Chissà per quanto le donne cinesi dovranno inventarsi dei modi per ammazzare il tempo, prima che sia lui a prosciugare ogni barlume di vita.

Fabio Bellumore(06 febbraio 2014)

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