La sede del Circolo PD Esquilino sorge proprio nel cuore della Roma multietnica. Non stupisce che sia nata qui l’idea che ha originato Reclusi senza reato, incontro che anticipa molti dei temi che saranno trattati su base nazionale il prossimo 15 marzo, nel convegno Immigrazione: una opportunità per l’Italia.
Un dibattito sui CIE potrebbe durare ore. I temi sono numerosissimi, le cifre spiazzanti: “nel solo 2013 per i CIE si sono spesi 200 milioni di euro. In Italia sono ospitate solo 460 persone per cinque centri attivi”, ricorda Marco Pacciotti, coordinatore nazionale del Forum Immigrazione PD. Gli fa eco Luciana Cimino, giornalista de l’Unità e moderatrice dell’incontro: “anche solo in termini di spending review, come si usa dire oggi, i CIE provocano un danno enorme al nostro paese: sono costosi e inefficaci”.
Colonna portante della discussione è proprio quell’inefficacia, che ha trasformato un sistema di identificazione in uno di reclusione, “in cui si attende per un tempo non codificato”. Pacciotti snocciola numeri, dimostra che l’immigrazione è ormai parte integrante del nostro tessuto sociale: “nelle nostre scuole elementari si contano 280.000 immigrati, e di questi solo il 3% è nato fuori dall’Italia”. Uno sguardo alle politiche di cittadinanza e allo Ius Soli è inevitabile, anche se sono molti i punti su cui sarebbe necessario lavorare per garantire l’integrazione degli stranieri: “la formazione degli educatori nelle scuole, una legge organica sulla libertà religiosa e sul diritto di asilo, una cittadinanza europea, una semplificazione delle pratiche per il rinnovo dei documenti”.
Che mettere mano alla Bossi-Fini – la legge che attualmente regola le migrazioni e l’occupazione degli stranieri – sia necessario lo sa bene anche Valentina Brinis, che nei CIE lavora da tempo: lo sportello di assistenza legale e socio-sanitaria di A buon diritto Onlus, l’associazione di cui fa parte, si confronta quotidianamente con storie personali incastrate nei fili di una burocrazia inefficace. C’è chi a diciotto anni viene rimpatriato in un paese che ricorda a malapena, colpevole di non aver trovato un lavoro dopo la scuola, come gran parte dei ragazzi italiani. Ci sono intere famiglie che vengono separate quando uno dei componenti perde il lavoro, e ci sono documenti che arrivano in ritardo dai tribunali portando al rimpatrio immediato del clandestino.
“E’ importante che se ne parli, che si sensibilizzi l’opinione pubblica”: è questo lo scopo dell’incontro, anche per Esmeralda Tyli, coordinatrice del Gruppo ed ex-operatrice in un C.A.R.A. L’opinione pubblica, spesso deviata da notizie filtrate o parziali, non conosce davvero la situazione dei reclusi nei CIE. Non ha idea di cosa significhi vivere “un tempo morto” dietro “sbarre che fanno sembrare le stanze prigioni, o peggio, stalle per cavalli”. Non sa che “la stampa non può entrare se non al seguito di parlamentari”, e che l’uso di sedativi e psicofarmaci sugli ospiti è altissimo. Non sa che i rimpatri seguiti alla reclusione sono solo il 47%, e che esistono forme alternative di accoglienza, come dimostra l’esempio di Giovanni Manoccio, il sindaco di Acquaformosache abbiamo incontrato ad Eataly a gennaio.
“Semplificazione amministrativa, forme di accoglienza alternative e sostituzione della Bossi-Fini con una nuova legge quadro” sembrerebbero le soluzioni più immediate al problema.
Ma sarebbe sciocco, in previsione delle prossime elezioni europee, se la politica italiana – tutta – escludesse dai programmi una delle questioni di carattere più spiccatamente sovranazionale: quella di un corridoio europeo e di una legislazione comune.
Veronica Adriani
(12 marzo 2014)
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