Il Riff ci saluta alla 14esima edizione con il 13esimo vincitore, “la Polonia dei sentimenti” di The girl from the wardrobe di Bodo Kox, su oltre 100 pellicole in concorso (corti, lunghi e doc) da 40 Paesi. Ma il cuore del Riff sono i documentari, l’avevamo detto, e, meritevolmente, ha vinto No Burqas behind bars di Nima Sarvestani. La regista è iraniana e la produttrice, Maryam Ebrahimi, svedese.
“Fuori casa, i burqa coprono le donne afgane dalla testa ai piedi, mascherando la loro identità, rendendole entità senza volto e senza voce nella società. Eccetto che in prigione”.
Prigione di Takhar. 40 donne. 34 bambini. 4 celle. Nessun burqa. Questo documentario fa entrare gli spettatori in uno degli ambienti più riservati al mondo: la sezione femminile di un carcere afgano. Le condizioni di vita qui dentro riflettono le condizioni di vita, lì fuori, delle donne in Afghanistan: un vero specchio, una realtà ribaltata che rende auspicabile il carcere rispetto a una non vita. Attraverso le storie personali di tre prigioniere, si svelano tutte le contraddizioni del dramma dei “crimini morali”, usati per controllare e limitare la vita delle donne. “Il film mostra come coloro che sono fuggite scontino una pena maggiore rispetto a chi ha commesso omicidio”.
La maggior parte delle donne è in carcere per “fuga da casa”, crimine morale per cui si possono scontare più di 10 anni – 400 detenute in crescita, donne con un’aspettativa di vita di 45 anni (Rapporto Amnesty 2012). Fuga di casa significa “fuga dal marito”, “ma nessuno si ferma a pensare cosa significhi per noi, la legge non capisce le donne”, dice Sara, una delle protagoniste, dietro le sbarre a 16 anni per una fuga d’amore, da un matrimonio combinato. “A quell’età non siamo viste come bambine, già si sposano a 10 anni”. Sara sconta tre anni, nel documentario ne ha quindi 19, ma effettivamente sembra una donna di 30.
6 anni di prigione per omicidio, 15 anni per fuga, la storia più allucinante, quella di Sima, forzata al matrimonio a 10 anni e 5 figli nel mentre che ne ha 20. In prigione, con tutti i suoi bambini: il suo crimine consiste nell’essere scappata da un marito violento che già aveva assassinato una delle sue altre mogli. “Quando con un bastone uccise anche uno dei suoi figli, sono fuggita con l’altro mio figlioccio e i miei”. Il marito continua ad andarla a trovare solo per ammonirla, talvolta percuoterla, arriva a minacciare di morte il figlio, che aiutò la moglie a “scappare”. Dove poi? A casa dei genitori.
Probabilmente è già l’effetto delle piccole ma consistenti modifiche al codice penale, da poco approvate dal parlamento afgano, che aiutereranno il “delitto d’onore”, permettendo agli uomini di picchiare mogli, bambine e sorelle senza paura di poter finire in prigione, un passo indietro dopo anni di progressi. Il provvidemento vieta inoltre ai parenti dell’esecutore della violenza di testimoniare contro. Perseguire un marito o un padre per violenza domestica diventa così praticamente impossibile. Perché la legge entri in vigore manca solo la firma del presidente Karzai. Forse il problema sarà intanto rinviato se farà come nel 2009 quando in extremis bocciò una legge che legalizzava lo stupro compiuto dal marito per “diritto nuziale”.
All’interno del carcere nessuna ritorsione o violenza, come si potrebbe supporre nel più classico immaginario cinematografico, tra le donne regna un certo rispetto e l’aiuto reciproco. “Sembra difficile da credere”, dirà Sara tempo dopo, “ma ero più preoccupata di tornare a casa che di essere imprigionata. Io e le altre ragazze eravamo come una famiglia, ci siamo occupate l’una dell’altra perché la maggior parte di noi stava vivendo la stessa cosa. E siccome eravamo tutte donne non avevamo la paura costante di essere aggredite“. Sara è l’unica con un’istruzione, scrive lettere per le sue compagne. Durante le riprese viene scarcerata: è l’ottavo giorno di Saur (Aprile), quando si festeggia la vittoria dei mujaheddin, i patrioti contro i sovietici, durante la rivoluzione del 1992. In quel giorno il Presidente può concedere la grazia. Ha aspettato guardando Javid, il suo innamorato scappato con lei, da una fessura che aveva fatto nel bagno. I due si scambiavano lettere d’amore, utilizzando i bambini come messaggeri. Si promettevano amore e matrimonio, altrimenti il fratello avrebbe potuto uccidere Sara per il disonore. Lei gli chiedeva di mandargli i suoi panni sporchi, aveva tutto il tempo di lavarli con gioia e devozione, “quello che sogno è lavare i vestiti di Javid a casa nostra”. Almeno una storia sembra finire bene, finché l’ultimo giorno lui le scrive che non può prometterle di sposarla. I due si incrociano fuori dal carcere, lei ha il burqa e non può nemmeno guardarlo negli occhi.
Una volta conosciute le storie si capisce il risultato paradossale, donne che piangono quando lasciano il carcere, le possiamo vedere in faccia, talvolta anche i capelli. Il motivo, che sicuramente ha anche a che fare con l’esistenza stessa del documentario, sta in un’altra opposizione a specchio tra prigione e vita. Gli uomini che controllano le donne, le guardie, sembrano uomini ragionevoli. Il direttore del carcere un illuminato, un soldato d’altri tempi “contrario ai matrimoni combinati che non fanno altro che aumentare l’astio tra le persone, aumentando le fughe”. Lui che le rinchiude sembra capire le donne, in effetti. Ascolta Sima, spaventata dal marito, e si offre di parlarci per spronarlo a trattarla in modo degno. Cosa che oltretutto sembra funzionare.
L’ultima storia è quella di Najibeh, la pasionaria che litiga con tutti, scappata dal marito incinta di due mesi e condannata a 10 anni, alla fine è costretta a vendere il suo unico figlio, nato lì dentro, perché senza soldi per sfamarlo. Sostiene che le guardie li rubino ai detenuti, ma qui le donne non sembrano aiutarla. Najibeh è delle tre la figura che rimane più ambigua, dolcissima, vitale e sempre sul filo dell’autodistruzione.
Ma cosa è successo a Sara? In un’intervista a The Debrief scopriamo: “mio zio in un primo momento cercò di buttarmi fuori di casa per la vergogna, poi mi chiuse in una stanza, mentre i miei cugini iniziavano a pianificare come uccidermi. Fortunatamente Nima, la regista, preoccupata per la mia scarcerazione, mi aveva dato un cellulare. L’ho chiamata disperata, lei e Maryam si sono confrontate con le guardie carcerarie persuadendole a intervenire”. Con il loro aiuto Sara ha ottenuto un passaporto e ora vive in Svezia, Maryam sta documentando la sua assimilazione in uno dei Paesi più moderni ed egualitari in cui vivere. “Non riesco a spiegare come diversa la mia vita è adesso”, si limita a dire Sara, “ora sono molto felice”.
“Ma poi c’è Latife e molti altri nomi – tutte sopportano storie che mostrano la forza interiore e la dignità dell’essere umano quando lei affronta condizioni di vita oscene”.
Alice Rinaldi(23 marzo 2014)
http://www.youtube.com/watch?v=LJc-KajJA7s