La storia di Albert: che importa camminare, se puoi viaggiare

Tutta l'anima del Festival del Cinema Spagnolo al Cinema Farnese a Roma, fotografata da Vittoria Mannu
Tutta l’anima del Festival del Cinema Spagnolo al Cinema Farnese a Roma, fotografata da Vittoria Mannu

Se siete spesso portati a pensare che le cose siano impossibili, Mon petit è il film documentario che fa per voi. Il titolo non è francese, ma catalano, significa Mondo piccolo, e il protagonista, Albert Casals, ci spiega che il mondo è piccolo davvero. Si chiude la Nuova Ola del cinema spagnolo, con questo evento speciale, nella cornice di una 7ima, e sempre più interessante, edizione di CinemaSpagna a Roma.

8 mesi. Un viaggio in autostop. Budget di partenza: 20 euro. Dalla Spagna alla Nuova Zelanda, da Barcellona a Auckland, e precisamente, un piccolo faro a capo Est, perché corrisponde all’esatto opposto rispetto alla sua casa. Lo scopo è conoscere chi vive lì, e dirgli: “ciao, sono venuto fin qui da Barcellona per salutarti perché sei dall’altra parte del mondo rispetto a me”. Albert chiacchiera davanti alla telecamera col suo bel sorriso, all’inizio del suo viaggio: “pensa quanto sarà divertente!

La storia, girata nel 2012, è quella di un ragazzo catalano di 20 anni, che un giorno decide di iniziare a viaggiare. Albert è molto carino, ha i capelli blu e gli occhi azzurri, una fobia per gli aghi certificata, e quattro tatuaggi: “le cose importanti della mia vita”. Amor, un fiore sul braccio; Libertad, un lupo sulla schiena; Buena suerte, una tartaruga sul piede; Felicidad, un drago sul fianco, quello più grande. Ma Albert Casals ha un’altra peculiarità: “c’è chi porta gli occhiali da vista, io porto la sedia a rotelle. Non capisco sinceramente chi pensa che sia una cosa così grave o assurda”. Ammalatosi di leucemia quando era solo un bambino, la terapia intensiva gli indebolì le gambe, fino alla loro quasi completa atrofia. “Sono contento perché comunque rispetto ad altri le sento, solo che non posso camminare”.

Albert
Albert

La vita di Albert è ricostruita  attraverso interviste, vecchi filmini di famiglia, riprese e autoriprese. Mon petit diventa così un piccolo documentario potente, vincitore non a caso, nel 2013, del Festival di Amsterdam, il più importante sul genere. La scelta di unire forme visuali diverse gli permette di andare sugli argomenti fino in fondo, arricchendoli di tutte le prospettive: da una parte c’è la professionalità discreta della troupe del regista Marcel Barrena, dall’altra la vecchia telecamera del padre che riprendeva Albert da piccolo, un occhio che non intendeva documentare in senso stretto, e poi la nuova camera di Albert e Anna, presa apposta per il viaggio. Anche se Albert sa che molte cose rimarranno fuori dal video, e saranno solo ricordate. Tutto risulta così estremamente vero, dal passato al futuro.

La famiglia di Albert è emblematica. Composta da un padre che l’ha compreso in ogni passo, una madre adottiva pragmatica, al posto di quella naturale che morì proprio durante la sua malattia, una nonna che ride per non piangere, e poi c’è Anna, che ha deciso di seguirlo. “All’inizio  tentammo con tutori e stampelle”, racconta il padre “ed effettivamente poteva camminare, anche se in modo un po’ goffo, poi un giorno mi disse che la cosa non lo interessava. Preferiva avere la velocità dei suoi amici piuttosto che la possibilità di stare in piedi. E così scelse la sedia a rotelle”.

 Erano le due scelte della sua vita. La seconda è che voleva viaggiare: “è l’unica cosa che mi interessa al mondo” dice Albert, “e non credo sia un modo per fuggire dalla realtà, piuttosto è un modo per conoscerla! Certo un viaggio può essere pericoloso, ti può succedere di tutto, ma quello che ho imparato io è che tutto può succedere anche se rimani a casa, allora tanto vale viaggiare! L’altra cosa che ho capito è che se penso troppo alle cose poi non le faccio, allora preferisco farle e basta”.

il viaggio di Albert e Anna
Il viaggio di Albert e Anna

“Cosa dovevo fare? Voleva viaggiare” commenta il padre . “Noi non gli abbiamo mai detto, ‘ma come fai se stai in sedia a rotelle?’ L’abbiamo pensato, ma non gliel’abbiamo mai detto. Avevo due scelte, impedirglielo e questo l’avrebbe reso triste, anzi, conoscendolo, l’avrebbe fatto scappare di casa. Allora c’era l’altra scelta, più sensata. Allenarlo”.

Albert si è talmente ostinato che oggi può procedere su qualsiasi tipo di strada e salita, su terra e neve, può scendere perfino le scalinate di Roma. Senza carrozzina, può scalare pareti rocciose, scavalcare staccionate, montare una tenda in completa autonomia. Spesso dorme per strada. “La gente che non ha niente ti aiuta sempre”, dice Albert. “Lui non ha paura della strada perché le persone in giacca e cravatta sono le uniche che gli hanno fatto male nella sua vita”, dice il padre.

Anna è la fidanzata di Albert. Anche la coppia è emblematica: lei un po’ maschile, lui un po’ femminile, sembrano compensarsi. La nonna non credeva che Albert avrebbe trovato qualcuno al suo fianco: “tutti mi chiedono, anche lei è sulla sedia a rotelle?, ma questo non ha senso. Quello che non credevo io è che uno libero e cocciuto come Albert avrebbe trovato una ragazza che lo potesse seguire!” Anna segue Albert in Italia, Bulgaria, Turchia, fino al confine dell’Iran, a cui arrivarono dopo circa tre mesi. Ma in un’autoripresa gli dice: “devo dirti qualcosa. Pensavo che il mio fisico fosse più forte per seguirti, ma è un mese che sto male. Devo tornare a casa”.

Anna e Albert
Anna e Albert

Albert è uno che cerca di farsi aiutare il meno possibile, anche perché sa perfettamente come giocare a suo favore “la disabilità”. Racconta “quando capita che bisogna attraversare il mare e non si può chiedere l’autostop”, allora si intrufola nei traghetti: “ci sono tanti modi divertenti. Chiedete alla gente. Io posso dire il mio: faccio finta di cadere dalla sedia. Si crea un grande scompiglio. Tutti cercano di aiutarmi per farmi salire. Così 4 volte su 5 si dimenticano di chiedermi il biglietto”, ride. Qualcuno direbbe che non è giusto, ma in fondo Albert chiede solo di poter viaggiare e vedere le cose. Per non parlare di chi lo vuole aiutare a tutti i costi, tra strani rituali indonesiani e riunioni improbabili di gente sulla sedia a rotelle in Georgia. “La gente si sente tranquilla  di darmi un passaggio o di ospitarmi, mi vedono indifeso. E poi vuoi mettere vivere con loro piuttosto che stare in un albergo?”

Così il film è una tensione bellissima verso l’ultimo incontro, il più casuale e significativo del mondo. Anna raggiungerà di nuovo Albert sulla Muraglia Cinese. Il suo amore gli salverà la vita: c’è qualche secondo di autoripresa dove Anna grida piangendo “Albert non respirava più, l’ho portato in ospedale, i medici lo stanno visitando”. “Quien la sigue la consigue”, dice Albert, chi la dura la vince. I due arriveranno insieme come l’avevano pensato, dall’uomo che vive vicino al faro neozelandese, che gli risponderà: “davvero se facessimo un tunnel nella Terra uscirei a casa tua?”

Alice Rinaldi(13 maggio 2014)