
C’è questo ragazzino con la maglia dei Rolling Stones. Avrà al massimo tredici anni, un sorriso che brilla sulla pelle d’ebano, ma scompare quando la volontaria di Medu gli chiede se vuole restare in Italia: “No, no, no”.
Ponte Mammolo, una baraccopoli nata 11 anni fa: circa 50 costruzioni che arrivano a ospitare anche 250 persone, provenienti soprattutto da Eritrea e Etiopia. Rifugiati politici, titolari di protezione internazionale, migranti forzati, tra i quali donne e bambini piccoli. Quando aumentano gli arrivi da Lampedusa organizzano i turni per dormire la notte. Molti fanno tappa nella baraccopoli per evitare di essere identificati e proseguire il viaggio senza cadere nella trappola del protocollo di Dublino: se ti prendono le impronte in Italia salvo rare eccezioni sei costretto a restare qui. Quelli che non sono riusciti a passare la frontiera a Ponte Mammolo ci vivono da anni.
Disposti ordinatamente in fila nel parcheggio della stazione aspettano di essere visitati dall’unità di Medici per i diritti umani, che ogni martedì sera svolge attività di assistenza socio-sanitaria. Awet ha diciassette anni e vuole andare in Inghilterra: “Partirò questa settimana, passerò dalla Francia, nascosto sotto un camion”. Non ha paura, dice: “L’ho già fatto in Libia, però lì eravamo nel vano, 250 persone in tutto”. Parla di Balotelli e del coro gospel in cui cantava. Racconta della follia del viaggio, di quelli che non sono mai arrivati: “Mio fratello, i miei amici, erano sulla barca che è affondata a ottobre a Lampedusa”.

“È urgente prevedere forme di assistenza temporanea che consentano ai migranti in transito di essere aiutati senza dover esibire documenti” sottolinea Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medu. Nonostante il potenziamento del sistema istituzionale di accoglienza – SPRAR – l’associazione stima che a Roma siano oltre 2.500 i migranti vulnerabili che vivono in strada o in insediamenti precari come Ponte Mammolo e gli edifici occupati di Anagnina, Collatina e via Curtatone. “Non esiste alcun allarme sanitario legato all’arrivo di profughi, il problema è che in assenza di misure di accoglienza adeguate patologie facilmente curabili sono destinate ad aggravarsi”.
“10.000 rifugiati su 3 milioni di abitanti con politiche chiare e trasparenti sarebbero gestibili”. Guglielmo Micucci è il presidente di Prime Italia, associazione che da un anno cerca di riconquistare la fiducia dei migranti che vivono stabilmente a Ponte Mammolo per farli uscire dal ghetto in cui sono confinati. “Alcuni hanno ottenuto la patente b, altri sono stati formati al piccolo artigianato e ora collaborano alla ristrutturazione dei bagni del campo. Tre ragazzi hanno trovato un impiego in regola seppure temporaneo e a settembre vorremmo partire con delle borse lavoro”. E le istituzioni? “Non ci stanno supportando. Dagli incontri con l’assessore al Municipio, al Comune e alla Regione è emersa solo l’ipotesi di un tavolo di concertazione. Le soluzioni si possono trovare, ma non si può delegare tutto al volontariato perché lavora gratis, lo stato deve fare la sua parte”.
Varcata la fessura nella vegetazione che collega la baraccopoli al resto della città si entra nella terra degli invisibili. Stretti corridoi passano tra minuscole costruzioni di legno e mattoni. Su ognuna ci sono dei numeri, li ha messi il Comune quando ha fatto il censimento. L’elettricità invece gliel’ha staccata e loro si sono organizzati con i generatori, che bastano per la luce ma non per il riscaldamento. C’è odore di cibo buono e vestiti freschi di bucato, c’è una sala comune e perfino un barbiere. Questa casa che non hanno scelto ci tengono a tenerla pulita e problemi non ne hanno mai creati, si sono auto-regolamentati.

“La situazione è difficile perché hanno completamente perso la speranza” spiega Fabiola Zanetti, responsabile di Prime Italia per le attività nella baraccopoli di Ponte Mammolo. Mister X – chiede di essere chiamato così – battuta pronta e modi gentili, è una specie di icona nel campo, quello a cui tutti si rivolgono quando hanno un problema. Come la ragazza che parla solo tigrino e stringe tra le mani un foglio che non la fa dormire la notte “È scappata dal centro di accoglienza per andare in Olanda, ma da lì l’hanno rimandata in Italia e le hanno fatto il decreto di espulsione. Dobbiamo darle una mano subito, altrimenti la riporteranno in Eritrea”.
Racconta una storia cattiva, che spiega come mai un migrante a un certo punto arrivi ad arrendersi. “Nel mio paese ero un infermiere. Sono arrivato nel 2005. Sapevo di Ponte Mammolo già prima di partire e mi avevano avvisato che in Italia non dovevo fermarmi perché non avrei avuto nessuna possibilità”. Lui infatti era diretto in Inghilterra: “Poi mi hanno preso i documenti, ed è finita”.
Ci ha provato a rifarsi una vita qui: “Ho lavorato per un’azienda che si occupava di smaltimento rifiuti, ma dopo un infortunio mi hanno licenziato. Ho trovato un impiego come badante e nel frattempo seguivo i corsi per il riconoscimento dei titoli di studio”. Vive nella baraccopoli e fa il tirocinio al San Camillo. Nel 2010 ottiene l’abilitazione per operare come infermiere in Italia, ma nel frattempo è arrivata la crisi “In questo momento non stiamo assumendo ma terremo presente il suo curriculum, mi dicevano”. E oggi in cosa speri? “In niente, conto gli anni che passano”.
Sandra Fratticci (31 luglio 2014)
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