“L’ISIS è riuscito a trasformare l’istinto di vita in istinto di morte, anche da dare agli altri”. Tahar Ben Jelloun, l’autore de Il razzismo spiegato a mia figlia, è arrabbiato e non lo nasconde. Mentre presenta il suo ultimo libro, È questo l’Islam che fa paura? in un Institut Français pieno oltre i posti a sedere disponibili, si lascia andare: “i primi responsabili di questa situazione sono gli stati arabi e musulmani. Se avessimo una vera tradizione di democrazia e rispetto della persona, oggi non saremmo arrivati a questo punto”.
Ben Jelloun è marocchino di origine e francese di adozione, ma soprattutto è musulmano. E come tutti i musulmani moderati, percepisce l’ISIS prima di tutto come una minaccia interna: “i jihadisti sono degli assassini che non conoscono il Corano. L’Islam non ha mai evocato una bandiera nera nella sua storia”. Spiega che “il senso della parola jihad è molto ampio: significa sostanzialmente migliorarsi agli occhi di Dio, in ogni campo”. Come a dire: il concetto di difesa all’attacco è solo uno dei possibili significati, e non certo il primo.
Eppure, da nord a sud e da oriente a occidente, il fascino macabro degli uomini in nero e delle loro violenze attrae nuovi seguaci. Tante le cause: gli eserciti smobilitati in Medio Oriente in seguito agli interventi statunitensi – non ultimo quello voluto da Bush in Iraq nel 2003 – o la miseria delle banlieues europee, incapaci di integrare degnamente gli immigrati di seconda generazione. Ma Ben Jalloun ha anche un’altra risposta, da sociologo: “i video di propaganda dell’ISIS mostrano una realtà da videogioco. La vera attrattiva per i giovani è la seduzione della tecnologia“. Che può trasformare la violenza da virtuale a reale.
L’Occidente non è certo esente da responsabilità: “ne ha almeno due: l’eredità del colonialismo e lo sguardo sulla questione palestinese“. È il sostegno incondizionato a Israele, soprattutto, ad aver inasprito i toni con il Medio Oriente: “Israele è inattaccabile e inattaccato. Se si critica la sua politica militare si viene tacciati di antisemitismo ed antisionismo: così si fabbricano musulmani radicali. Le popolazioni musulmane che vivono in Francia non si sentono più francesi al cento per cento”. E così la maggior parte dei migranti arrivati nella patria dell’Illuminismo con una cultura ben lontana dallo spirito laico che la caratterizza, “sono come delle spezie che non vanno d’accordo con gli altri condimenti”.
Il ruolo della religione, in questo mancato meltin’pot ha un peso: “la separazione fra Stato e chiesa in Francia è il principio cardine. La tradizione laica francese, nata con Zola, Hugo, De Sade, comprende anche – perché no – la caricatura e la blasfemia”: Charlie Hebdo, in fondo, è solo l’ultimo esempio in ordine di tempo. Una storia, quella francese, che non coincide con quella di molti stati islamici, nemmeno dei più moderati: “in Marocco l’ateismo si tollera, purché resti un fatto privato”. Eppure a sconvolgere lo scrittore nella vicenda Charlie Hebdo non è stata tanto la reazione violenta del fondamentalismo islamico, quanto la tiepida solidarietà dei paesi cattolici, su tutti l’Italia: “in quei giorni la stampa italiana ha fatto più volte intendere che tutto sommato i vignettisti col loro comportamento se l’erano cercata”.
A chi gli chiede se ci sarà mai una laicizzazione del mondo musulmano, Tahar Ben Jelloun risponde con un sospiro: “è una speranza”. L’insegnamento della storia delle religioni nelle scuole e la tutela delle donne per evitare discriminazioni di genere sono il primo passo per l’integrazione in Occidente, e forse una buona pratica anche per i paesi orientali: “oggi in Turchia non si può portare il velo”. Su tutto, però, è fondamentale fermare la smania di un nuovo colonialismo: “se vado ad occupare un paese che ritengo sottosviluppato per andare ad imporgli la mia cultura e la mia civiltà, sto facendo del razzismo di stato“. E il razzismo, come sempre, non può che alzare barriere.
Veronica Adriani
(5 marzo 2015)
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