Come tutta Roma, il quartiere Africano conserva sempre intatti, in mezzo al traffico della città e l’andirivieni dei passanti, dei microscopici polmoni di fiori e piante. I fiorai romani negli ultimi anni hanno lasciato il posto a commercianti di tutto il mondo come in una staffetta involontaria. Giorno e notte aspettano di dare il loro contributo a qualche occasione importante. Tra i fiori di Via Tripolitania fa capolino Saagi, è un signore egiziano, uno dei 10,815 presenti a Roma. Si ferma a parlare senza problemi ma è ancora un po’ impacciato con la lingua, in Italia è arrivato 7 anni fa: ricominciare a 50 anni con suoni, parole, modi di dire richiede tempo e pazienza.
Saagi è cristiano cattolico, in Egitto apparteneva a una minoranza della minoranza: “il 10 per cento degli egiziani sono cristiani e il 90 per cento di questi sono ortodossi. Nel mio paese sentivo di far parte di una piccolissima porzione, qui no. In Italia non sono mai stato discriminato, siete persone molto sensibili”.
Come la maggior parte dei migranti, non approfondisce le motivazioni per cui ha lasciato il suo paese, fa cadere la domanda e spiega perché ha scelto l’Italia come destinazione: “Mio fratello è cittadino italiano e ho potuto fare le carte per il ricongiungimento familiare, ora sono qui con la mia famiglia, con mia moglie e mia figlia”.
“Qui è tutto diverso”, continua. “Io vengo dal terzo mondo, non so se sia giusta questa definizione, ma sicuramente posso dire che sono partito da una realtà molto distante da questa, in ogni cosa. Sto benissimo a Roma”. Ogni mattina alle 7,00 prepara i vasi coi fiori davanti al suo chiosco e la sera, alle 22,00, li riporta dentro. Lo stesso anche la domenica. “Mi piace fare il mio mestiere, ho sempre fatto il fioraio. Ma sento parecchio la crisi, adesso 15 ore di lavoro al giorno mi bastano appena per pagare l’affitto e mangiare, 3 o 5 anni fa non era così. Prima si spendevano 20 o 25 euro per un mazzo di fiori, oggi nessuno vuole superare i 5 euro”.
Se pensa a quello che ha guadagnato arrivando a Roma, Saagi non parla né di soldi né di affari. “La cosa più importante che in Italia posso avere e che nel mio paese non avevo è la libertà. Tutti i paesi mediorientali sono pieni di divieti, ti dicono come comportarti su tutto, la prima cosa che manca è la libertà di espressione. E finisci per non parlare mai come vuoi, ma solo come gli altri vogliono che tu parli”.
Ha un’aria rassegnata e quando il discorso arriva ai fatti di cronaca, come la strage di Parigi e le minacce islamiche all’Occidente, con un sorriso amaro dice: “Non si può paragonare. In Egitto c’è una paura costante, non ti abbandona mai”.
A sentire queste parole, il viaggio di Saagi sembrerebbe senza ritorno, ma invece conclude: “Nonostante tutto la vita senza la mia terra è dura, mi manca perché ci sono nato. Tra due o tre anni voglio ritornare, devo morire nel mio paese”.
Rosy D’Elia
(22 aprile 2015)
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