Quando entravi nella baraccopoli di Ponte Mammolo ti aggrediva il contrasto tra la miseria e la pulizia, perché tra le costruzioni di lamiera e muratura aleggiava il profumo del bucato e del cous cous. Uno dei ragazzi ti mostrava orgoglioso i bagni che lui e gli altri rifugiati stavano ristrutturando grazie a un progetto dell’associazione di volontariato Prime Italia. Quel bagno non esiste più, se lo sono portato via le ruspe ieri mattina.“La cosa più grave è la completa assenza delle istituzioni: i ragazzi non sapevano nulla dello sgombero e nessuno ci ha coinvolti” spiega Fabiola Zanetti, responsabile delle attività di Prime Italia nella baraccopoli di Ponte Mammolo che in mattinata ha diffuso un comunicato di dura condanna, chiedendo all’assessore alle politiche sociali di Roma Capitale, Francesca Danese, e all’assessore alle politiche sociali del IV Municipio, Maria Muto, le ragioni di uno sgombero avvenuto in modo totalmente unilaterale. “Il problema non è l’inadeguatezza del luogo, perché la baraccopoli esiste da 13 anni, il punto è vedere questo” afferma voltandosi verso i giovani africani sparpagliati nel piazzale che costeggia il parcheggio della metropolitana, in via delle Messi d’Oro. Saranno un’ottantina, ma altri si sono allontanati cercando riparo per la notte: “D’estate con gli sbarchi arrivano anche 300-400 persone”.“170 migranti in transito sono stati trasferiti al centro d’accoglienza Baobab, ma i rifugiati che vivevano nella baraccopoli da anni si sono rifiutati di andarci”. Il Baobab è tra i centri coinvolti nello scandalo di mafia capitale: “Con un percorso condiviso avremmo potuto spiegare ai ragazzi che ora la gestione è cambiata. Dopo due anni di tavoli di concertazione con il Municipio non è stato possibile valutare insieme una soluzione alternativa allo sgombero coatto”.Anche Prime era a Ponte Mammolo con l’obiettivo di chiudere la baraccopoli, ma attraverso attività di reinserimento sociale dei rifugiati che vivevano all’interno: dai corsi di italiano a quelli di guida, dalla redazione del curriculum alle borse lavoro. “In Eritrea ero un professore di matematica” racconta Michael, uno dei ragazzi coinvolti nei progetti “Per circa 8 anni ho lavorato in un’azienda a Bologna, ero partito come magazziniere, ma vedendo le mie competenze mi hanno pian piano affidato anche mansioni informatiche”. Poi però arriva la crisi, la cassa integrazione e nonostante i corsi di formazione che continua a seguire il lavoro non lo trova. “Ora sto facendo un tirocinio ad Ikea, nel settore logistica. Sono contento, mi piace”. E come lui c’è Pier, che dopo i corsi alla baraccopoli ha iniziato il tirocinio da Leroy Merlin, e Aziz che al Grandma Bistrot sta coltivando la passione per la cucina nata in un ristorante turco in Sud Sudan, una delle tappe del lungo viaggio verso l’Italia.“Grazie ai fondi stanziati dalla Tavola Valdese e da Adra Italia i ragazzi ricevono un rimborso spese. Con i datori di lavoro si è creato un buon rapporto: noi sappiamo che garantiscono una formazione reale ai rifugiati e loro hanno la certezza che le persone che gli segnaliamo sono affidabili”.Un lavoro costruito giorno per giorno: “Abbiamo impiegato mesi a conquistare la fiducia dei ragazzi, le cose stavano andando avanti, abbiamo ottenuto addirittura i fondi per far partire progetti di supporto alloggiativo. È bastata mezza giornata a spazzare via tutto quello che avevamo fatto”.Mentre la mezzanotte si avvicina a gruppetti i rifugiati tornano a quello che è rimasto del campo per recuperare qualche telo, i più fortunati trasportano un materasso. Da qui non vogliono andar via, anche se non hanno più neanche un tetto. “Noi chiaramente continueremo a lavorare” sottolinea Zanetti “Sarà più difficile di quanto è stato finora, ma posso garantire che andremo avanti per la nostra strada, consapevoli che sia la più corretta”.
Sandra Fratticci(12 maggo 2015)
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