Un chilo di arance al supermercato costa 2,10 €, ma il bracciante che le raccoglie, di quella cifra percepisce in media 5 centesimi. Parte dal dato economico lo sfruttamento del lavoro agricolo, anche senza il contesto: schiavitù, lavoro in nero, “pizzo” sull’affitto di tuguri fatiscenti e privi di riscaldamento, lavoro minorile, violenze sessuali. Temi che fanno scalpore da tempo, più precisamente da quando i migranti di Rosarno decisero di ribellarsi al caporalato finendo sulle prime pagine dei giornali, e diventando il simbolo di una rivolta legittima, quasi eroica: gli invisibili avevano finalmente un nome, un volto e una storia.
Sarà per questo che, da allora, ogni volta che le arance maturano i riflettori si accendono: troupe televisive documentano l’orrore dei campi, si dichiara lo stato di emergenza umanitaria. Poi, finita la raccolta, il silenzio. Fino alla stagione successiva. Ecco perché Antonello Mangano, che con Ghetto Economy aveva già raccontato il sommerso della filiera agroalimentare, ribalta finalmente la questione: “i veri invisibili rimangono multinazionali, commercianti e trafficanti di succo”: non quelli che dal sistema vengono sfruttati, ma quelli che ci guadagnano.Nasce da questo assunto la campagna #FilieraSporca, il viaggio nella filiera delle arance che Terrelibere.org, DaSud e Terra! Onlus hanno presentato alla Camera dei Deputati il 24 giugno. Non solo un rapporto sul caporalato e l’opacità dei meccanismi economici che sottendono allo sfruttamento dei braccianti agricoli, ma una serie di proposte concrete per realizzare una filiera trasparente: leggi, dati, impegno sociale da parte delle aziende.
“Abbiamo scelto di presentare il nostro rapporto oggi per via di Expo” spiega Fabio Ciconte, presidente di Terra! Onlus, perché non ha senso parlare di made in Italy se la filiera non consente di verificare l’italianità dei prodotti. Del resto, non tutte le direttive europee sono migliorative di leggi italiane: il Regolamento europeo 1169/2011 ha di fatto abbattuto l’obbligatorietà di indicazione dello stabilimento di produzione, nonostante da un sondaggio effettuato dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali emerga come il 71% degli italiani abbia espresso un forte desiderio di trasparenza in materia.
“La politica continua ad affrontare questo problema con un taglio umanitario e retorico. Lo afferma la deputata Celeste Costantino, che con DaSud nel 2008 aveva dato il via all’inchiesta Arance Insanguinate, primo dossier su Rosarno a firma dell’associazione. E mentre pone l’accento sul ruolo delle aziende e delle multinazionali nella catena di sfruttamento, si pone degli obiettivi in preparazione di una proposta di legge: “dobbiamo chiedere una riflessione al Governo su diversi punti: obbligo di tracciabilità dei fornitori della filiera, impiego di etichette narranti per ricostruirla per intero, ruolo delle mafie nel nord e nel sud“, perché con Saluzzo il caporalato ha mostrato di potersi estendere fino in terra sabauda. Le fa eco Pippo Civati, che con l’Expo delle dignità solleva questioni contigue: “consumo di suolo, spreco del cibo, ragioni dell’immigrazione e dello sfruttamento, ruolo delle amministrazioni locali dei comuni coinvolti”.
Intanto, un primo passo avanti dal novembre 2014, data della pubblicazione di Ghetto Economy, a distanza di qualche mese si registra: di tre colossi interpellati sul ruolo dei fornitori nella filiera (Nestlè, Coca Cola e Sanpellegrino), uno cala il velo e fornisce i nomi: è Coca Cola, che cita tutti e cinque i fornitori responsabili della produzione della Fanta. Una notizia, ancor di più se vista come esempio di “buona pratica” per le altre multinazionali.
Nell’affrontare il tema della filiera, ciò che conta è uscire dall’ottica umanitaria ed entrare con lucidità in quella economica, superando gli stereotipi che vedono lo sfruttamento agricolo come una pratica destinata ai soli stranieri: “il caporalato italiano non è contrapposto a quello migrante: è lavoro sfruttato in tutti i casi” spiega Mangano. Nel rapporto si legge che gli italiani coinvolti nella raccolta delle arance ci sono, ma la concorrenza sta diventando ingestibile: un rumeno accetta di svolgere il lavoro per 15 euro al giorno, meno di un terzo di quello che richiede un maghrebino, che per questo infatti viene spesso allontanato dai campi. Eppure, continua Mangano, “quello del caporalato è un problema che voglio risolvere perché riguarda il mio futuro”.
Il perché, Ghetto Economy lo spiega chiaramente: “il lavoro migrante negli anni è stato l’oggetto dell’esperimento, le campagne del Sud il grande laboratori. Poi è toccato a tutti. (…) Chiamatelo caporalato, chiamatela esternalizzazione. La sostanza è un sistema a strati in cui il livello superiore scarica sull’inferiore disagi, costi e problematiche. Oggi quel sistema è la normale economia“.
Veronica Adriani(24 giugno 2015)
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