I giovani ospiti di Civico Zero – il centro diurno per minori migranti finanziato da Save the children – sono ragazzi, ma alcuni di loro sembrano già uomini. Sono lì, ma per il resto del mondo non esistono. Sono bloccati fra burocrazia, regolamenti europei e partenze frettolose. Sono in transito, il loro esserci non dura mai più di qualche giorno.
Dopo l’estate, per pochissimo, le foto di questi piccoli fantasmi hanno ricoperto le pareti di Civico Zero. Certi avevano il volto corrucciato, altri sorridevano più sereni. Altri ancora, i più vanitosi, erano in posa davanti alla macchina, in paziente attesa del prodotto della polaroid fresca di stampa da portarsi via per ricordo. Eppure oggi quelle foto si possono solo raccontare. Se vuoi vederle devi accontentarti di una selezione epurata dagli scatti più a rischio per la privacy. Oppure, puoi incontrare Andrea Alessandrini davanti a un tablet, e scoprire un mondo che qui a Roma è esistito solo per una sera.
I’m here è una raccolta di 25 ritratti. È un reportage che raccoglie vite di passaggio, “un fiume in piena che scorre sotto terra“, come lo definisce Andrea. È una raccolta paziente, nata passando del tempo coi ragazzi di Intersos e Civico Zero, fotografando il ping pong, la sala pesi, ma anche il momento della preghiera o lo scorcio dei piccoli letti a castello in legno di A28. C’è tutto, in quelle foto, anche l’invisibile, perché “stavo facendo quello che non potevo fare. Quei ragazzi, per la società, non esistevano“.
Oggi non esiste neanche la mostra, e non potrebbe essere altrimenti, visto che ad essere ritratti sono minori. Eppure I’m here vive una seconda vita. “Alla fine dell’anno accademico il progetto era terminato e mi apprestavo a lasciare. Ma al momento dei saluti ci siamo detti: ‘non può finire così’. Ho continuato ad andare regolarmente a Civico Zero e sono diventato un ospite fisso del laboratorio di fotografia di Mohammed Keita“, il fotografo di J’habite a Termini. Ed è proprio quando Keita decide di lasciare che arriva la svolta: “mi hanno chiesto di tenere il laboratorio al suo posto, e io ho accettato”.
Il mercoledì pomeriggio, oggi, un numero variabile di ragazzi si raduna a Civico Zero per imparare a scattare, sviluppare foto in camera oscura, postprodurre, andare insieme a vedere mostre. Ma il vero scopo, ovviamente, è un altro: “chi arriva qui ha bisogni di base: mangiare, dormire, vestirsi. Non pensa neppure lontanamente di poter ambire a qualcosa di più”, racconta Andrea. Ed è qui che la fotografia diventa strumento espressivo: “i ragazzi durante le passeggiate scattano, rappresentano la loro realtà. E vedere alla fine una loro foto esposta è una soddisfazione non indifferente”.
La loro realtà è fatta di luci sfocate, persone in movimento, anziani imbronciati. Oppure di specchi, o di figurine di calciatori gettate nell’immondizia, fra le sterpaglie. Ognuno ha il suo modo di vedere il mondo, ognuno il suo occhio, anche quando la lingua è carente. Così il progetto prosegue: “in futuro vorremmo sviluppare alcune idee dei ragazzi. Ne stiamo discutendo proprio in questi giorni” spiega Andrea. Si parla di bacheche pubbliche dove poter affiggere liberamente le proprie foto, di pagine Facebook che permettano di farle girare fra gli amici. E di disegni, che sono tanti: “molti ragazzi raccontano il proprio viaggio così, in immagini terribili”.
I’m here oggi è questo: il grido di chi al mondo annuncia la propria presenza attraverso le immagini. C’è la ragazza rom che frequenta il laboratorio contro il volere della madre che la vorrebbe in strada ad elemosinare, o il ragazzo problematico che spende un pomeriggio a ritrarre tutto quello che non va nel suo quartiere. E poi c’è anche chi dopo tanto tempo decide di partire, e lo annuncia un giorno all’improvviso, a fine lezione, lasciando tutti di stucco. Per riprendere lentamente la sua vita di fantasma in viaggio.
Veronica Adriani(22 ottobre 2015)
Le foto scattate da Andrea Alessandrini per il progetto I’m Here