Ngoc ha vent’anni quando decide di salire su un aereo per andare a riprendersi una parte di sé nel paese che le ha dato il nome, lo sguardo orientale e non pochi grattacapi: il Vietnam.
Atterra a Ho Chi Minh e scopre una città fortemente plasmata dai contrasti tra oriente e occidente che ne hanno segnato la storia. Da un lato l’ex capitale del Vietnam del Sud risente tuttora delle influenze statunitensi subìte durante la guerra: “Non capisci quanto siamo stai invasivi finché non sei lì. In centro ti ritrovi in mezzo ai grattacieli, sembra di stare ad Atlanta”. Dall’altro lato il potere socialista esercita un controllo potente attraverso la censura: “I media sono un mezzo di propaganda, sono banditi i programmi che hanno a che fare con la sessualità. Lady Gaga è di contrabbando, non la trovi neanche su internet. E quando telefoni senti un clic perché le comunicazioni sono intercettate”. Il risultato è un impoverimento culturale che per Ngoc è shockante: “A Saigon ci sono in tutto tre librerie. Hanno volumi sulla storia del Vietnam solo in francese. La letteratura europea si risolve nei pochi classici che da noi erano in voga ai tempi della censura e non esistono autori vietnamiti salvo quelli che sono fuggiti all’estero e hanno scritto della loro terra”.A segnare la distanza maggiore rispetto alla cultura occidentale è il rapporto con il dolore e la morte: “Mentre noi tendiamo ad evitarli i vietnamiti li affrontano come un fatto naturale”. Secondo Ngoc si tratta di una conseguenza della spiritualità buddista, ma anche della situazione politica e economica. Il piano di riforme lanciato a partire dal 1986 ha trasformato uno dei paesi più poveri al mondo in una nazione a medio reddito. Tra il 1998 e il 2013 il tasso di povertà è sceso dal 58 al 9%, negli ultimi 10 anni il paese è cresciuto a un ritmo del 6% medio annuo, mentre l’inflazione è passata dal picco del 23% nel 2008 al 4,1% nel 2014. Uno sguardo ai dati della Banca Mondiale rivela però forti disparità: sebbene il PIL pro capite sia pari a 1.890 dollari il 20% della popolazione non ha accesso ai servizi igienici e 6 cittadini su 10 sono in una condizione di vulnerabilità lavorativa. “A Saigon trovi di tutto, anche la bufala napoletana, ma ci sono situazioni di povertà estrema. I vietnamiti hanno cognizione della caducità della vita e sono costretti ad arrangiarsi come possono”. L’ingegno individuale è evidente in campo economico: “Sono tutti commercianti di cibo e fanno casa bottega, piazzando dei banchetti vicino all’uscio”.
I rapporti familiari sono improntati alla vicinanza, non solo metaforica: “Le case si sviluppano in altezza perché la densità demografica è alta e gli spazi ridotti. E sono organizzate in modo da stare insieme, ad esempio dormono tutti nella stessa stanza”. La solidarietà, pur presente, è tutt’altro che incondizionata: “Se un parente non è in grado di mantenersi viene pagato per svolgere dei lavoretti all’interno della famiglia, ma c’è una forte gerarchizzazione, per esempio lo fanno dormire a terra”.
A livello religioso la frequentazione dei templi non si accompagna a riti condivisi, che sono invece vissuti nell’intimità della casa: “Il culto familiare, molto presente, porta a tramandare rituali antichi. Da mio padre ad esempio ho assistito alla celebrazione del capodanno cinese. La famiglia si è riunita davanti all’altare per rivolgere le proprie preghiere agli antenati. Quindi la moglie di mio padre ha preso delle immagini che raffiguravano varie divinità, diverse da quelle presenti nei templi, sulle quali erano scritte delle preghiere in lingua cinese”.
E nonostante le distanze enormi che ci separano i vietnamiti sono molto più simili agli italiani di quanto si pensi: “Gli piace gesticolare, è affascinante guardarli quando parlano perché sembra litighino. Amano fare chiasso e come noi colgono ogni occasione per mangiare”.
Sandra Fratticci(30 settembre 2015)
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