Le ambulanze del mare per salvare i migranti

Migranti e Moas
Migranti e Moas
Qualsiasi sia il mare da solcare per fuggire da una terra e approdare ad un’altra, quell’uomo o quella donna troveranno una nave privata a soccorrerlo, frutto di un sogno di una famiglia che un giorno, mentre navigava spensierata vide la giacca di un migrante annegato galleggiare davanti ai propri occhi. Se dovessimo scrivere l’incipit della storia di Moas, potrebbe essere questo. Moas è oggi una organizzazione non governativa, che dal 2014 ha iniziato ad utilizzare una nave – Phoenix – per pattugliate le grandi rotte di navigazione di migranti.Con Moas e con le imbarcazioni di Medici senza Frontiere il mondo ha capito che la salvezza dei migranti in mare poteva arrivare non solo dalle “navi istituzionali”, mosse dagli Stati e da accordi europei, ma anche dai privati, dalla società civile. E in quel sogno il mondo ha creduto. Per dare l’idea di quanto lontano esso sia andato citiamo la cifra che solo in due settimane Moas ha raccolto a settembre: due milioni e duecento euro (oltre quattro miliardi di vecchie lire). Tutto è accaduto subito dopo la foto del bambino siriano, Aylan, portato in braccio esanime da un soccorritore su una spiaggia turca. Foto che ha fatto il giro del mondo. È accaduto anche che David Gilmour dei Pink Floyd organizzasse un concerto per raccogliere fondi, che delle bambine nella lontana Florida si mettessero insieme a vendere spremute per la missione di Moas, o che la Caritas in Germania raccogliesse in una settimana 230 mila euro. Oggi, dopo aver salvato poco meno di 12mila persone in mare (dati maggio-settembre) e aver presidiato con imbarcazioni, droni che sorvolano il mare ed individuano le carrette del Mediterraneo centrale, si varano altre due missioni. Altre acque da solcare: Mare Egeo e Golfo del Bengala. Il Mare Egeo è la parte orientale del Mar Mediterraneo. Quel mare che i profughi siriani attraversano per arrivare dalla Siria alla Grecia, passando per la Turchia. Il secondo mare è più lontano, nel Sud Est asiatico. Oggi – mercoledì 11 novembre – è approdata a Bangkok la nave Moas. Dopo trentotto giorni. Prima di entrare in funzione l’attende una revisione: tempo utile all’organizzazione per pianificare il da fare, districandosi tra diplomazia e aiuti umanitari.”Siamo andati così lontano perché lì non c’è nessuno” afferma Maria Teresa Sette, operatrice Moas. L’UNHCR chiede un’azione urgente prima che la fine della stagione dei monsoni scateni una nuova ondata di persone che partono su barche dal Golfo del Bengala. Nei primi sei mesi del 2015, circa 31,000 persone del Rohingya e del Bangladesh sono partiti dalla Baia del Bengala su imbarcazioni di trafficanti. Questo segna un aumento del 34 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e porta a 94,000 il numero stimato di persone che hanno rischiato la loro vita e che intraprendono un viaggio pericoloso dal 2014. Si stima che oltre 1,100 persone siano morte in queste acque dal 2014, tra cui 370 nel 2015.Intanto un’altra “ambulanza marina” presidierà il Mar Egeo, con i suoi 51 metri e due vascelli più agili e veloci per soccorrere le persone in mare. Le due barchette di recupero si chiameranno Aylan e Golip in onore dei due fratelli curdi morti a settembre scorso.Mentre una imbarcazione arriva a Bangkok, al fine di alleviare questo dramma, a La Valletta – sede anche di Moas – parte il vertice Africa-Europa sulle rotte dei migranti nel mediterraneo. “Noi non ci vogliamo occupare di cose che non sappiamo – afferma Maria Teresa – Noi siamo in grado solo di salvare vite. Fare più che pensare”.

Fabio Bellumore(11 novembre 2015)

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