Flaminio è una delle principali tappe dei turisti ma anche della gente comune, una zona dinamica e vivace, dove transitano persone di tutte le nazionalità, e dove la multiculturalità fa da sfondo a una apparente normalità; la quotidianità delle persone che vivono o lavorano qui, abituate ormai a questo movimento.In mezzo a questo flusso troviamo un pezzo della Turchia: un piccolo locale che vende gustosi kebab tradizionali. Ad accogliervi ci sarà lui: Giany, il turco doc di 28 anni ma che per via dei suoi 9 anni di lavoro a Roma, si sente anche un po’romano. “Per me Roma è Italia, non si può dire di aver visto l’Italia senza passare da qui”. Confessa che gli sarebbe piaciuto fare il taxista per poter girare la città e conoscere persone nuove. Pur essendosi perfettamente integrato, non nega il suo legame con la cultura del paese d’origine, per lui “mantenere le proprie tradizioni è importante quanto integrarsi”. Lavorando con suo zio e con altri turchi ha infatti la possibilità di proporre uno dei principali piatti della cucina turca: il kebab, conosciuto in tutto il mondo. Giany è diventato un punto di riferimento nella zona, non di rado le persone si fermano a chiedere indicazioni, è conosciuto per la sua socievolezza e cortesia. “Anche se non siamo giornalisti anche i kebabari possono essere informatori”, esclama mentre saluta un conoscente chiamandolo “fratello”.Ricorda i primi tempi in Italia quando ancora non sapeva la lingua e ciò per lui era un grosso limite. “Mi sono subito dato da fare, facevo di tutto per imparare al più presto l’italiano: ascoltavo la radio, la tv, cercavo di frequentare gli italiani, ho avuto anche una ragazza”. Parla al passato perché come dice, nelle relazioni la differenza delle culture può influire. Da quando è venuto a Roma non ha mai cambiato lavoro e adesso che si sente integrato sta benissimo anche se gli manca la famiglia. “L’esperienza dell’immigrazione fa maturare tanto”, è stato faticoso ma grazie al suo lavoro, da bravo primogenito, è riuscito a far studiare i suoi quattro fratelli più piccoli. Anche se è difficile mettere i soldi da parte, ogni anno si concede un mese di vacanza per stare con i suoi cari che cercano in tutti i modi di convincerlo a tornare. I suoi fratelli che ora grazie a lui hanno un buon lavoro in Turchia vorrebbero poter ricambiare i suoi sacrifici. Per lui la famiglia rimane un punto di riferimento importante senza il quale è facile perdere il cammino.Ora vuole continuare a lavorare ma non esclude di tornare in patria anche se spiega, sarebbe difficile ora che è abituato a stare qui. Sente però una certa somiglianza tra l’Italia e la Turchia, e gli piacerebbe che la sua patria fosse considerata più europea, perché malgrado la religione differente, la Turchia “è un paese moderno che si è sviluppato molto. Molti amici italiani che sono andati in Turchia per vacanze mi chiedono che sto facendo ancora qui”.Sottolinea di quanto la conoscenza sia importante per combattere i pregiudizi. “ C’è ancora gente che mi chiede quante mogli ho e la cosa mi fa ridere perché questo stereotipo cosi ricorrente non rispecchia affatto la realtà. Quando si parla di musulmani, si tende sempre ad estremizzare. Bisogna riconoscere che in fondo sono più le cose che ci accomunano di quelle che ci differenziano. Quello che si vede in televisione e solo la parte più estrema dell’islam, ma nel mezzo ci sono musulmani normali che non farebbero del male nemmeno ad una mosca. Per me essere musulmano vuol dire aiutare il prossimo, quelli che uccidono non si possono chiamare musulmani”.Vorrebbe che ci fosse più solidarietà fra tutti gli stranieri e non solo fra i connazionali. “Quando vedo uno straniero arrivato da poco mi ricordo come mi sentivo io, per quello cerco di aiutarlo”. D’altronde proprio gli stranieri costituiscono una grossa parte della sua clientela.“Gli italiani preferiscono la cucina italiana”, dice sorridendo.
10/11/2015
Ania Tarasiewicz
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