La Capoeira non è solo una danza o arte marziale brasiliana. A Metropoliz diventa anche un vero e proprio strumento per comunicare e interagire, un linguaggio comune laddove le parole non bastano, per sperimentare una nuova immagine di sé e per creare un punto di contatto con l’altro. È il caso dei bambini rom che hanno intrapreso questa scoperta insieme a due volontarie: Valentina Andreoli e Serena Diviggiano.
Nell’ ex fabbrica abbandonata sulla Prenestina, le due volontarie 28enni hanno dato vita a un laboratorio artistico ed espressivo con il coinvolgimento di bambini rom di Metropoliz, utilizzando il linguaggio del corpo e quello dell’arte, della musica e della danza, elementi già presenti nella cultura rom.
Valentina si sta laureando in Scienze pedagogiche a Roma Tre. Lavora nel sociale da parecchi anni, in particolare con l’associazione di volontariato, Popica Onlus, che ha avviato diversi progetti nella realtà di Metropoliz, occupazione a scopo abitativo dove vivono diverse comunità: migranti ma anche italiani che si trovano in situazioni di emergenza abitativa. L’associazione è entrata in contatto con la comunità rom già da prima che entrassero in questa occupazione. Le sue attività si concentrano nell’accompagnamento ai servizi, una sorte di ponte fra questa comunità e i servizi del territorio. Un occhio di riguardo va al mondo dell’infanzia con un servizio di doposcuola che si fa proprio a Metropoliz, ma anche un servizio di supporto didattico nelle scuole.
Serena ha studiato lingue e comunicazione internazionale. Ha collaborato con varie associazioni di volontariato per l’alfabetizzazione dei rifugiati politici, bambini con L1 differente dall’italiano, sia nelle scuole pubbliche che nei corsi pomeridiani. Grazie ad un’ amica psicologa si avvicina allo studio della psicomotricità che le permette di integrare le sue due grandi passioni: l’intercultura e la danza. Quest’ultima è , infatti, una forma espressiva che può avere una funzione di mediazione in una realtà multietnica, come quella di Metropoliz.
Valentina e Serena si sono conosciute grazie alla Capoeira e, pur appartenendo a due scuole diverse, si sono sentite subito in sintonia. Valentina già lavorava a Metropoliz così ha dato la possibilità a Serena di conoscere questa realtà.“Avevo notato sin da subito una propensione da parte dei bambini rom verso l’interazione e il loro bisogno di comunicare. Così ho proposto a Valentina di fare un laboratorio artistico-espressivo con questi bimbi. Metropoliz, essendo una realtà aperta alle varie proposte si adattava bene a questa progetto”, racconta Serena. Inoltre, come spiega Valentina: “in quel contesto percepisci il rischio della ghettizzazione e della chiusura e questo spinge a fare qualcosa”.
Tra le varie attività di Metropoliz, quella della Capoeira per bambini rom è stata sicuramente una novità, ma ci pensa Valentina a spiegarci cosa sia questa danza e cosa rappresenti. “La Capoeira nasce dal disagio, in un contesto di impedimento di comunicazione. Infatti, le comunità africane che venivano trasportate dall’Africa al Brasile per lavorare nelle piantagioni non avendo una lingua comune usavano il linguaggio del corpo, della danza e della musica per comunicare tra loro. Così la Capoeira esprime perfettamente il bisogno di comunicare”.
Questo strumento comunicativo è stato prezioso per i bambini rom che come ci racconta Serena “senza accorgersene, hanno fatto proprio uno strumento per interagire con gli altri. Hanno colto la possibilità di sperimentare un’immagine diversa di sé, rispetto a quella che hanno sperimentato fino ad ora”.
La Capoeira è per questi bambini un gioco ma anche una “scuola di vita” dove si dimenticano le differenze. Questo “rituale giocato” non lascia spazio all’individualismo e alla superbia. Sono fondamentali, invece, la partecipazione e il rispetto dell’altro, soprattutto del più fragile. “Nella Capoeira ad esempio non puoi girarti di spalle, devi ascoltare cosa ha da dirti l’altra persona. Ci deve essere domanda e risposta. Non puoi restare fuori”, spiega Serena. E Valentina aggiunge: “Capoeira ti mette nella condizione di cercare di capire l’altro, di doverti confrontare con realtà distanti ricercando elementi comuni.”
L’esperienza di queste due volontarie è nata da un’intuizione, e, mossa dalla passione e senza secondi fini si è conclusa raccogliendo tante soddisfazioni, nonostante tanti dicessero “tanto non serve a nulla”, o addirittura “occhio alla borsa”. Ricordano che all’inizio non è stato affatto semplice abbattere certe barriere. Se da una parte, infatti, l’iniziativa è stata accolta con curiosità da parte dei bambini rom, dall’altra c’era una certa diffidenza e difficoltà a lasciarsi andare e a sperimentarsi in una nuova immagine. “Bisognava spiegarli cosa fosse la Capoeira, farli capire che è divertente ma mettendo anche in chiaro che aveva una funzione molto importante, e che non si trattava solo di un gioco, ma di un impegno da prendere con serietà e costanza”, spiega Valentina. Per fortuna però, l’esperimento ha portato a risultati sperati, con una risposta più che positiva da parte dei bambini che “si sono scoperti bravi in qualcosa”, ed è stata una sorpresa anche per loro scoprire un’immagine di sé diversa da quella di “outsiders” . Inoltre, lo stereotipo che li rappresentava come persone “incapaci di impegnarsi in qualcosa” è stato messo in dubbio. Per Valentina e Serena si tratta del superamento di una sfida.
“Siamo contente che alla fine hanno fatto propria l’esperienza, che hanno mostrato entusiasmo e che hanno scoperto una cosa nuova, dimostrando di saper stare perfettamente nella situazione, insieme agli altri. L’idea è riuscita e ci ha dato una motivazione in più per i traguardi futuri”, concludono con un sorriso. E a vedere la loro motivazione e passione, sappiamo già che per loro non esistono cose impossibili.
31/05/2016
Ania Tarasiewicz
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