In piazza Montecitorio il 22 settembre c’è un prete ortodosso che porta una croce con sé, prende il microfono e inizia a parlare in amarico. Alza la voce, riceve applausi, ma al termine del discorso si rifiuta di rilasciare dichiarazioni, né in italiano né in inglese. Alcune donne si avvicinano con le foto e si rivolgono direttamente alle istituzioni alle loro spalle: “perché il governo italiano non dice nulla contro il genocidio? Tutti sanno quello che sta succedendo. Perché Mattarella ha incontrato il presidente dell’Etiopia ad Addis Abeba?” gridano. Parlano di nuovi giacimenti di gas in Etiopia, di interessi economici, di finanziamenti statunitensi al governo etiope perché tutto resti com’è. “Vi lamentate tutti i giorni dell’immigrazione e ci chiedete di stare a casa nostra. Noi vorremmo stare a casa nostra, ma siamo costretti a scappare” dice dal microfono una donna con la voce rotta. “Non sarebbe più facile tirare via un dittatore che lamentarsi di tutti quelli che arrivano qui?”.
Ahmed arriva qualche minuto dopo l’ora ufficiale dell’inizio della manifestazione. Sulle spalle porta una bandiera con un grande albero rosso al centro: è un sicomoro. Gli Oromo, nei villaggi, sotto quell’albero prendono le decisioni più importanti. Oggi in piazza si riuniscono e basta, ancora, per la terza volta da gennaio. Manifestano contro il governo che li sta decimando a quasi diecimila chilometri da Roma, e contro tutti i governi che non intervengono per fermarlo.
È una protesta silenziosa quella degli Oromo, fatta di bandiere e polsi incrociati, come quelli di Feysa Lilesa, che da Rio ha portato la voce del suo popolo sugli schermi di tutto il mondo, e che ora in patria non ci può tornare. Non ci torna neanche Ahmed, che in Italia vive da dieci anni, ma che ha lasciato tutta la famiglia in Etiopia: “dopo che il Master Plan è stato ritirato è andata ancora peggio” spiega “ti fermano per strada e ti portano in prigione, oppure ti ammazzano per prenderti la terra. Vengono a prenderti persino a casa”. Ahmed sta cercando di farsi raggiungere dai suoi familiari, ma al momento nessuna partenza si prospetta all’orizzonte.
“Sono anni che sono qui in Italia” racconta Zerhium, che nel nostro paese è arrivato da bambino. “Non avrei nessuno se tornassi a casa ora, ma il richiamo della mia terra è forte”. Lo è sempre, lo è per tutti: “tu sei di Roma? Se vai a Napoli per una settimana, lo sai quanto ti manca?” dice, sorridendo. Anche lui porta la bandiera Oromo. Intorno a lui si fanno largo altre immagini: bambini riversi a terra, donne incinta uccise e nude, uomini torturati. Le portano in mano le persone in piazza, sono il loro manifesto per l’Occidente: “danno fuoco alle case, quelli che si salvano li rincorrono e li fucilano” racconta Zerhium “e noi non abbiamo più lacrime. Ormai si piange dentro”.
“Le informazioni ci arrivano tramite giornalisti in incognito e i social network, che periodicamente vengono chiusi e riaperti” spiega Hailu, che tra i presenti è quello che racconta la situazione politica con maggiore dovizia di particolari. Narra dell’arrivo delle grandi imprese europee nella zona di Addis Abeba, dell’inutilità della speculazione edilizia in corso, della necessità, invece, di infrastrutture e servizi. Racconta che in piazza oltre agli Oromo c’è anche un’altra etnia, quella degli Amhara, numericamente la seconda del paese. “Siamo molto simili” spiega Hailu “anche se la maggior parte degli Amhara è cristiana ortodossa mentre gli Oromo sono in prevalenza musulmani”. La religione e la lingua non sono un problema: la causa è comune, e così darsi il cambio al microfono, in piazza, viene naturale. Si lotta ancora, fianco a fianco, per vedersi riconosciuto il diritto più importante per ogni essere umano: quello alla vita.
Veronica Adriani
(28 settembre 2016)
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