Una vita vissuta in viaggio quella di Tiziana Ciavardini, giornalista freelance, collaboratrice di Repubblica e di Fatto Quotidiano e antropologa culturale, che ha trascorso gran parte della sua vita all’estero: in Medio Oriente, in Estremo Oriente e nel Sud Est Asiatico. Oggi ci racconta l’Iran: un paese che l’ha conquistata nonostante i suoi numerosi paradossi.
Tiziana Ciavardini nasce a Roma dove fino all’età di 15 anni frequenta le scuole presso le suore. In seguito, per motivi familiari si trasferisce nei paesi islamici. Qatar, Singapore sono però alcune delle tappe, poi approda in Cina dove è ricercatrice presso la facoltà di Scienze Sociali del Dipartimento di Antropologia della Chinese University of Hong Kong, continua a viaggiare in Thailandia e Indonesia.Per la sua tesi di laurea segue il consiglio di un missionario e svolge una ricerca sul campo presso i tagliatori di teste del Borneo: i Kantù, una comunità sconosciuta. Un lavoro inedito e riconosciuto dalla comunità scientifica. Le sue numerose pubblicazioni all’interno di riviste scientifiche tuttavia non la soddisfano: se da una parte le piace l’idea di raccontare qualcosa di inedito, dall’altra, dice, “mi dispiaceva scrivere di cose che poi non leggesse nessuno”, cosciente del fatto che “le pubblicazioni accademiche le leggono solo gli studenti o gli addetti ai lavori”.Da qui la decisione di intraprendere la carriera giornalistica, conciliandola con la sua formazione antropologica che “ti da un’apertura mentale che nessun master in giornalismo ti può fornire”.Durante le sue ricerche “l’Islam era sempre al mio fianco, così ho deciso di dedicarmi allo studio di questa religione”, fin dal principio notò quanta ignoranza e strumentalizzazioni ruotano attorno all’Islam. L’antropologia le ha insegnato che per conoscere una realtà bisogna viverla ed essere pronti ad accogliere anche ciò che non ci si sarebbe mai aspettati, e così è successo durante la sua esperienza in Iran. È un paese che ha imparato ad amare nonostante le sue numerose contraddizioni. Analogamente a quanto le era accaduto con la religione islamica, si accorge quanto la rappresentazione che i giornalisti davano dell’Iran fosse stereotipata, quasi una strategia politica volta a denigrare l’Iran.In un paese islamico come l’Iran, l’identità religiosa è strettamente connessa a quella culturale ma il rischio è quello di fare delle associazioni pericolose.“Per poter parlare dell’Islam lo devi vivere. È triste vedere come nelle trasmissioni televisive spesso a parlarne siano personaggi che non hanno mai viaggiato”. Sulla scia del suo maestro ed ispiratore, l’antropologo Malinowski, che ha rivoluzionato il modo di fare etnografia, per lei conoscere una realtà significa “vivere sul campo” e nel caso dell’Islam ciò vuol dire ad esempio entrare in una moschea, parlare con le persone del posto, condividere il cibo e le usanze, capire che la cultura e la religione sono in profonda simbiosi. “La ricerca sul campo è paradossalmente più attuale oggi di quanto lo fosse ai tempi di Malinowski”, eppure sono sempre meno i giornalisti disposti a raccontare la realtà a partire dalla vita reale delle persone. Ecco perché per lei “l’antropologia è il vero giornalismo”, quello che non si limita a fare il copia incolla di agenzie, quello che insegue la verità ma nello stesso tempo è sempre pronto a mettere in discussione verità preconfezionate.“In 24 anni di vita all’estero posso dire di aver visto e sentito di tutto”ma l’Iran, dove ha vissuto per 10 anni non ha mai smesso di sorprenderla: da una parte un paese profondamente legato alla tradizione e ai dogmi religiosi con tutte le restrizioni connesse, dall’altro l’apertura verso la modernizzazione. “Ho visto persone camminare per strada durante il Ramadan che stavano svenendo per la fame con 40 gradi, eppure dicevano di avere la forza di Dio dentro che li faceva muovere. Questa è la forza della spiritualità che in noi non c’è più”. Il paese è a maggioranza sciita, ma non tutta la popolazione è credente. “Esiste infatti anche l’altra faccia della medaglia: le restrizioni favoriscono i suicidi e il consumo di droga per “evadere” da una realtà oppressiva. È facile per i giovani procurarsi la droga, a costi contenuti, proveniente dal vicino Afghanistan. Sono molti gli incidenti stradali provocati dall’assunzione di alcool e sostanze stupefacenti. A dispetto delle norme repressive infatti si può trovare di tutto: dall’alcol alla prostituzione. La repressione produce questo”.“Gira voce che in Iran gli omosessuali vengano impiccati: infatti la condanna a morte per atti omosessuali scatta se ci sono 4 testimoni. Mentre, paradossalmente, chi vuole cambiare sesso viene addirittura aiutato economicamente dallo Stato per fare l’operazione”. La lista dei paradossi non finisce qui. Il 12 ottobre in Iran si è celebrata la Ashura, in cui si commemora il martirio di Hussein, nipote del profeta Maometto che, secondo la tradizione sciita, fu ucciso e decapitato nel settimo secolo. Storicamente, questo rituale era accompagnato da atti autolesionistici collettivi, con delle parate di uomini che si auto flagellavano in segno di compassione e profondo lutto. Oggi invece, in seguito al divieto di commettere atti autolesionisti sancito dalla guida Suprema Ali Khamenei, si realizzano atti di solidarietà: si dona il sangue. Durante le celebrazioni le strade sono piene di ambulanze dove poter donare il sangue, affinché non si disperda, ma sia di aiuto per le persone che ne hanno bisogno.Tiziana ha vissuto la speranza e la fiducia delle nuove generazioni che credono nel cambiamento, ma anche i tempi bui delle proteste contro l’ex presidente Ahmadinejad durante i quali sono morti o scomparsi molti studenti, giornalisti ed intellettuali, e confessa “ho avuto paura”. L’Iran è un paese che è riuscito a creare una “vita parallela e alternativa”, dove le persone si rifugiano nella loro sfera privata dove “sfogano”la libertà repressa con atti che sfociano nel bizzarro e nell’estremo. Nel sottile confine tra sacro e profano, tra tradizione e modernizzazione qualcuno finisce con il comportarsi “sopra le righe”.L’Iran è un paese che avanza rapidamente nella tecnologia, nel turismo, nel business, ma che è rimasto ancora troppo indietro sulla questione dei diritti umani: la Repubblica Islamica detiene il triste record di esecuzioni capitali. Il governo di Hassan Rohani ha fatto ben sperare in un cambiamento in seguito anche all’accordo sul nucleare. Tiziana non nasconde la delusione che tuttavia non spazza via la fiducia: camminando per i bazar di Tehran ha visto un popolo oppresso si, ma anche di un’ospitalità unica e che vuole aprirsi al mondo e affrontare le sfide con coraggio, con le donne in prima fila che rivendicano la libertà sul proprio corpo.Il velo: un simbolo religioso vissuto come imposizione da alcune donne, ma che non impedisce di sfoggiare abiti femminili nelle feste private. L’Iran è tra l’altro il secondo paese per il consumo di prodotti di make up e cosmetica e in fondo “non è detto che una donna velata sia meno felice di quella a cui il velo non è imposto”.“Esiste senz’altro una componente dell’Islam che abbraccia la violenza e il terrorismo-ammette Tiziana-ma non vi è alcuna ritualità e le vittime principali di questi atti sono i mussulmani stessi: ciò dimostra che dietro ci sono questioni politiche volte a incutere terrore che hanno poco a vedere con la religione.L’Iran è un paese contraddittorio ma che lascia un segno nelle persone che lo vivono, un paese che ti entra dentro, anche se Tiziana non nega che le sfide da affrontare siano ancora tante.
(31 ottobre 2016)
Ania Tarasiewicz
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