“Volevo onorare il dono e la fiducia che le persone mi avevano dato nel fotografarle, molte di loro in situazioni difficili e grazie a una GoPro, che portavo sempre con me per catturare ogni istante, ho potuto filmare quel che accadeva intorno a ogni singolo scatto, la sua storia.” Da questo intento nasce la pubblicazione di “In quel preciso istante. Retroscena di un reportage in Kenya” di Guillermo Luna.
“Osservo la persona. Ci vuole tempo,finché divento invisibile a chi ho davanti. Aspetto, fino a quando sento che è arrivato quel preciso istante. Allora scatto la foto”.
Guillermo Luna, classe 1970, nasce a Rosario in Argentina “perché l’ospedale più vicino era lì”, ma cresce a Funes piccola cittadina sulla ruta che porta da Rosario a Cordoba. “Mi ha sempre spinto qualcosa ad andare da qualche parte” e così è stato per la fotografia.
La passione per il disegno grafico lo porta a conoscere Edgardo Juarez: “in una grande tipografia e per caso iniziamo a parlare della sequenza Yankee Papa 13 del fotogiornalista Larry Burrows che, inviato da Life nella guerra in Vietnam per seguire i combattimenti, si ritrova sull’elicottero militare statunitense mentre viene abbattuto dall’artiglieria nord vietnamita”.
Vedendo la sua curiosità gli mette una camera in mano e lo porta con lui: “divento il suo discepolo e imparo sul campo seguendolo”.
“Sempre per caso giocando a calcio in una città vicina conosco un padre salesiano, Padre Angel, che mi parla della sua missione nel Nord. Così nel 1996, a 26 anni, prendo la mia macchina, anno 1973, e, vincendo ogni scommessa con i miei amici, percorro 1200 km per arrivare a Formosa, armato di 10 rullini (360 scatti) per fare un reportage: è stato il mio viaggio iniziatico, lui mi ha dato la possibilità di capire che quella era la mia strada.“
Arriva in Italia, a Milano, nel Marzo 2000: “Sono partito dall’Argentina in attesa del riconoscimento della cittadinanza italiana perché i miei nonni materni erano italiani, avevano come cognome Ercole. Tantissimi altri argentini hanno fatto come me perché la situazione nel nostro Paese si stava complicando e così tutto è diventato lento”. Ci sono voluti 3 lunghi anni per ottenere la cittadinanza e con l’introduzione della legge Bossi-Fini nel 2002 la situazione è peggiorata. “Sono stati anni difficili, non avevo documenti non avevo niente, tutto andava a rotoli. Ho smesso di fotografare: ero irregolare e avrei rischiato il foglio di via se mi avessero fermato. Non ero mai libero. Non ero carcerato, ma non potevo trovare un lavoro e dipendevo da altri per una casa”. Poi per caso mi arriva un messaggio con su scritto -“opportunità: il fotografo Armando Rotoletti ha bisogno di un assistente” – Non lo conoscevo, scopro che è una persona eccezionale che con pazienza mi ha insegnato tante cose, soprattutto la terminologia tecnica giusta. Io non parlavo italiano se non quello che avevo imparato ascoltando a ripetizione una cassetta di Gianluca Grignani. Mi dividevo fra il lavorare in una fabbrica di divani e alle bancarelle della fiera di Sinigaglia. Rotoletti mi mostra la prima macchina digitale, una Canon D30 che poi diventerà la mia, pezzo dopo pezzo, guadagnandola lavorando: entro nel mondo del digitale.”
Nel 2003 la situazione precaria e senza cittadinanza si complica: “ero alla frutta, dovevo andar via, così chiamo un caro amico Stefano che abitava a Roma. Arrivo qui a Ottobre e arriva anche la cittadinanza: inizia una nuova vita.
Mi trovo un lavoro come cameriere in un ristorante argentino, ma soprattutto incontro mia moglie Elena, la donna della mia vita, senza la quale la mia rinascita come uomo e fotografo non sarebbe mai stata possibile.
Nel 2004 parto per testimoniare con un reportage in Argentina i soprusi della Benetton sugli aborigeni rappresentati da Atilio Curiñanco. Da lì arrivo fino in Patagonia, viaggio dal quale nascerà la mostra nel 2005 “Patagonia, uomini e paesaggi”.
“Di nuovo per caso ricevo un invito per una raccolta fondi per la Caritas in Georgia. Lì vengo assegnato a un giovane sacerdote, Padre Pawel, che poi scopro essere un camilliano. Inizia così il mio percorso con i camilliani raccontando le loro missioni e documentando i progetti nei diversi villaggi dalla Georgia all’Armenia”. Luoghi in cui Luna torna a settembre del 2008, anno dello scoppio della guerra, per seguire tutte le vicende degli sfollati. “Grazie a l’aiuto di una interprete, che inventa l’escamotage di portare il pane al Pope facendomi passare per sordomuto (parlando mi avrebbero scoperto), entriamo nella zona occupata dai russi superando la barriera dei cecchini. Ero il primo straniero ad arrivare a Nikozi, il monastero era completamente distrutto e il Pope Isaia, per risollevare gli animi, mi chiese “ci canti qualcosa”: improvviso un tango e lui registra tutto.” Inaugura così una tradizione: da dopo la guerra ogni invitato al monastero quando arriva deve cantare una canzone. “Tornerò poi nel 2013 per cantare insieme parlando dell’idea trasformare tutti quei suoi filmati girati negli anni in un unico film”.
Nel Novembre del 2011 inizia a preparare il libro reportage che documenterà il quarto centenario della morte del fondatore dell’ordine religioso dei Camilliani. Seguendo questo percorso nell’Aprile del 2012 arriva in Kenya nel Wajir, poco più di due mesi prima della strage nelle due chiese del Primo Luglio, per documentare il lavoro del CamillianTask Force (CTF), il gruppo di intervento in situazioni di crisi umanitarie dei Camilliani. Due giorni di viaggio, 800 km via terra, due settimane di scatti: il libro “In quel preciso istante. Retroscena di un reportage in Kenya”, che sarà presentato il 23 Marzo, racconta proprio quel che succedeva dietro quegli scatti.
Silvia Costantini
(15 Marzo 2017)
Fotografie di Guillermo Luna