Daniel prende il pennarello e sulla lavagna scrive Brothers Island. Subito dopo specifica che quella è un’isola molto speciale, “ha solo tre abitanti che parlano inglese”: lui e le sue due studentesse. L’isola è la piccola aula nell’ufficio di Programma Integra in cui si svolge il suo corso base due giorni a settimana, gli abitanti aumentano man mano che la notizia del corso si diffonde. Arianna si è inserita in corsa: lavora nel sociale ma vorrebbe tornare ad occuparsi di migrazioni, e il suo francese non basta più. Guidata da Daniel ripassa la pronuncia delle lettere dell’alfabeto, poi i giorni della settimana, del mese, dell’anno. Ad ogni lezione Daniel assegna un compito: imparare cinque nuove parole. Ma in pratica ogni volta ne insegna molte di più.
Daniel non viene esattamente da un paese d’Oltremanica: è un rifugiato eritreo, ma l’inglese per lui è stato a lungo pane quotidiano. Il contatto con Programma Integra è arrivato dal CAS di Frascati in cui risiede. Un altro corso sull’ospitalità turistica gli ha procurato un tirocinio presso un hotel della Capitale e una bella esperienza formativa: “la nostra insegnante di HACCP è stata bravissima: oltre alle normative ci ha insegnato come presentare in pubblico. Grazie a lei ho migliorato molto anche il mio italiano” racconta.
In Eritrea Daniel studia ingegneria elettronica, ma dopo la laurea viene inserito nel programma governativo che obbliga i giovani a prestare servizio per due anni presso l’amministrazione pubblica: “ho iniziato a insegnare fisica e chimica nella scuola secondaria. La prima volta ho rifiutato, ma poi sono stato costretto ad accettare”. L’incarico non è eccezionale: 50 euro al mese per 35 ore di lavoro settimanali in classi strapiene di studenti. Ma lui si ritiene già fortunato ad aver passato lo scoglio del servizio militare: “al suo termine si può fare domanda per entrare all’università, ma è difficile. Quando ci ho provato io, di 20.000 studenti ne sono stati ammessi 3.500, gli altri sono stati arruolati nell’esercito”.
Daniel pensa di poter tenere duro: due anni di insegnamento e poi il dottorato all’Università, per aprirsi le porte del mondo e partire per l’America o l’Europa. Ma qualcosa va storto: “Ho accompagnato un amico a Serafe. In Eritrea non è permesso uscire dal territorio, e così siamo stati arrestati”. Daniel passa otto mesi in carcere e il sogno della ricerca sfuma: “non avrei più potuto fare nulla, sarei stato segnato a vita”. Così nel 2014 inizia il viaggio: tre mesi in Etiopia, tre in Sudan, poi la Libia. Dopo un mese di viaggio approda sulle coste catanesi, e viene messo di fronte a una scelta: restare in Italia o proseguire. Sceglie di salire verso nord, un pullman lo porta a Torino. Il passo successivo è la Svizzera tedesca.
“Ho iniziato a studiare la lingua fin dal primo giorno” racconta. Tra volontariato e corso di lingua, resta in Svizzera tre mesi, poi prosegue ancora verso nord: la tappa successiva è la Norvegia, dove resta sei mesi, passando dal sud al nord del paese. Nel primo centro cui viene assegnato la vita è migliore: “c’era un volontario che passava nelle case per parlare e sapere se avessimo bisogno di qualcosa”, mentre nella Norvegia del nord iniziano le difficoltà: “per arrivare nel più vicino centro abitato dovevo fare 45 minuti di cammino a piedi. Ero lontano da tutto: l’ufficio, il supermarket…”. Allo scadere dei sei mesi la Norvegia decide che non può restare, e lo mette di nuovo di fronte a una decisione che segnerà il corso della sua vita: chiedere asilo in Germania o in Italia. Daniel ha il 50% di opportunità che la sua richiesta possa essere accettata, non può permettersi di sbagliare: “Siamo abituati a pensare che in Italia non ci sia lavoro, così per me scegliere questo paese è stata una sfida” racconta. Una sfida che nel suo caso ha funzionato: “Un mio amico è rimasto in Svizzera, due in Norvegia, altri sono tornati nel loro paese. Io sono qui”.
Nel suo futuro Daniel continua a vedere l’Università: ha studiato l’italiano alla Dilit e avviato le pratiche per ottenere il riconoscimento del titolo di studio. Chiama spesso la sua famiglia in Eritrea “per non farla preoccupare”, spiega sorridendo. Nel suo paese ha lasciato i genitori e tre fratelli: una studentessa di medicina, una sarta e un saldatore. Per loro il lavoro c’è: forse, pensa, non avranno bisogno di mettersi in viaggio e ricreare altrove la loro isola.
Veronica Adriani
(7 giugno 2017)
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