Daniele Biella presenta Le storie di sette Giusti con la Fondazione Nilde Iotti

Migranti a Lesbo(foto OnuItalia)
Migranti a Lesbo(foto OnuItalia)

Nel suo libro si narrano le storie di sette Giusti, nello sfondo di un’isola che da tempo ha dentro di sé l’antidoto a razzismo, xenofobia e diffidenze. Sono modelli replicabili in realtà più grandi come le città italiane ed i vari Stati europei?Con le dovute differenze: l’isola è uno dei luoghi in cui le persone arrivano dopo avere fatto il drammatico viaggio in mare, quindi gli abitanti toccano con mano l atragicità della migrazione forzata e soggetta alla tratta da parte dei trafficanti. Lampedusa a parte, in Italia vediamo queste persone quando già sono in un’altra fase della loro vita, dopo avere scampato almeno il pericolo di morte. Quindi l’antidoto alla xenofobia si deve sviluppare con altre dinamiche, ma certamente in molti luoghi c’è, in altri fatica ma va sempre ricercatone .Lesbo è un’isola in cui la maggior parte degli abitanti ha alle spalle una storia di migrazioni. Molti hanno raggiunto l’isola da rifugiati durante il conflitto tra la Turchia e la Grecia nel 1922. Come queste origini hanno influenzato il senso di accoglienza degli abitanti di Lesbo?Con un approccio totalmente empatico verso chi arriva. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma la gran parte degli abitanti la pensa così: chi arriva dal mare, anche se con lineamenti, pelle e lingua diverse, potrei essere io in un altro periodo storico della vita (come è già successo), e quindi lo aiuto, perché se fosse a ruoli invertiti io vorrei essere aiutato.In che misura l’ Italia, anch’essa popolazione di migranti, conserva la memoria delle migrazioni?È una domanda che non ha risposte semplici. Probabilmente la conserva con un forte e continuo richiamo a “come eravamo noi” quando abbiamo compiuto queste migrazioni: con una valigia, pochissimi spiccioli e il sogno di una vita migliore. Oggi buona parte della popolazione italiana vive in modo più che dignitoso, e a volte più si ha meno ci si ricorda di quando non sia aveva, soprattutto le giovani generazioni che non l’hanno sperimentato (a parte ovviamente le famiglie che oggi hanno gravi problemi economici anche in Italia). Fare memoria è fondamentale, perché ci permette di ragionare e agire con il massimo possibile di serietà e serenità di fronte a ogni situazione che vediamo o sentiamo.Lesbo e Lampedusa, due isole al centro delle migrazioni ed esempi di accoglienza dal basso. Cosa c’è da imparare, da raccontare e da replicare in altri contesti?Innanzitutto la voglia degli abitanti di continuare le loro vite e di dire alle persone: “non fatevi ingannare nell’associare il nome delle isole a problemi, venite in vacanza che i posti sono magnifici”. Sembra una riflessione banale non lo è: i posti sono in effetti magnifici, ma soprattutto è ingiusto che la loro fonte principale di guadagno risenta dell’essere in questo periodo storico uno snodo centrale delle migrazioni forzate. Dovrebbero essere premiate dai governi per le loro scelte di accoglienza: da raccontare e replicare c’è soprattutto questo. La si può chiamare “normalità del bene”, ovvero l’azione antieroica ma fondamentale chi si mette in aiuto dell’altro senza chiedere nulla in cambio, arrivando a salvargli la vita da morte certa in mare.Stratos Valiamos è un eroe dei nostri tempi in quanto con la sua presenza in mare aperto è riuscito a salvare – issandoli con le proprie mani sul peschereccio o chiamando in soccorso la Guardia costiera greca – un numero indescrivibile di profughi. Le ONG e la politica italiana, europea e dei paesi da dove si imbarcano i migranti, cosa dovrebbero migliorare per dare delle risposte concrete ed efficaci a chi affronta i viaggi in mare?Ong, Italia, Europa e Paesi di imbarco sono ognuno di essi un attore distinto nel tema delle migrazioni forzate e illegali perché gestite da trafficante. Le ong in mare, per esempio, con le proprie navi hanno già dato un segno di presenza importante, e nonostante ci sia stato il tentativo di mettere in discussione il loro operato, sono fondamentali: l’ho vi sto di recente imbarcandomi su una di queste navi, l’Aquarius dell’ong Sos Mediterranée. L’Italia ha fatto molto in questi anni sostituendosi anche a chi invece doveva e dovrà fare di più, ovvero tutti gli Stati membri europei: manca la condivisione della solidarietà europea, elemento fondante dell’Unione e quindi, se manca, significa che non è in atto una vera unione tra popoli europei ma solo economica. L’attenzione va posta sui luoghi di partenza e di passaggio migratorio: non chiedendo a Stati frammentati come la Libia di respingere i migranti – che finisco in prigioni inumane prima di riprovare comunque la via del mare dando sempre più soldi ai trafficanti e subendo abusi e violazioni dei diritti umani – ma imponendo il rispetto di tali diritti, anche negli Stati di confine con il deserto, altro luogo di angherie da parte dei trafficanti. Bisogna incidere in quei luoghi con un approccio non solo securitario ma anche di investimenti per cambiare le basi attuali che spingono le persone a partire: nessuno lascia la propria casa se ci sta bene, quando lo fa è perché non trova alternativa, che lo faccia per guerre, dittature, povertà o pericolo di persecuzioni personali.Che tipo di libro è L’isola dei giusti, letteratura o giornalismo?L’ho concepito più come letteratura, perché è molto incentrato sulle storie di vita delle persone, con rimandi di tanto in tanto ad argomenti più ampi ma solo quando essi emergono dal racconto dei protagonisti. L’obiettivo è far immedesimare il lettore con le stesse persone, per capire il proprio ruolo su questo tema complesso e urgente. Sono biografie, storie vere quindi, e questo comunque non tiene lontano il libro da una componete giornalistica, comunque di contorno.Come giornalista come si rapporta agli  intervistati?Con i sette protagonisti mi sono rapportato da essere umano, prima di tutto: sono entrato nelle loro case, nei luoghi dove lavorano, quindi nelle loro vite, sempre chiedendo il permesso. Sono stato ore con loro, ho condiviso la quotidianità, i gesti, gli sguardi. Ho ritenuto questo approccio l’unico possibile con persone che poi avrei cercato di raccontare su un libro. Quindi nessuna ricerca dello scoop ma tanta voglia di entrare a fondo nell’umanità di ogni persona, che è diversa dall’altra.“L’isola dei Giusti” a quale target di lettori è destinato?Nessun target specifico, ovvero è aperto a chiunque voglia capire cosa stia succedendo in questi anni delicati di flussi migratori forzati e traumatici senza però avere davanti a sé un saggio, un documentario: piuttosto una conoscenza diretta con esseri umani che potrebbero essere i propri partner, fratelli e sorelle, genitori, nonni o semplicemente amici. Perché questa è la sensazione che ho provato conoscendoli: persone con affinità legate al sentirsi parte di un mondo in cui ognuno deve fare la sua parte, se in condizioni di poterlo fare. Gli abitanti di Lesbo vivono direttamente il dramma di esseri umani che sono costretti a lasciare tutto, a causa di guerre, persecuzioni, calamità naturali, ce l’hanno sotto gli occhi ogni giorno e non possono – non vogliono – rimanerne indifferenti. In Italia la presenza dei migranti, soprattutto nelle grandi città, è percepita di più in periferia, in situazioni di disagio e povertà, generando quella che si definisce una guerra tra poveri. Cosa può portare gli italiani a modificare la percezione negativa del fenomeno migratorio?Il racconto – quotidiano, continuo, serio – delle centinaia di buone prassi che ci sono. Io le sto conoscendo una alla volta, e sono ovunque, in una singola palazzina come in un intero quartiere, in città come in campagna o montagna, in centro come in periferia. Bisogna combattere una certa “narrazione tossica” che fa di tutta l’erba un fascio e di fronte a una singola situazione, condannabile, che riguarda una persona straniera, generalizza per il gusto di confermare stereotipi figli della malafede. Gli stessi che, per esempio, riguardavano noi stessi quando eravamo migranti in massa: “italiani mafiosi”, era la frase più ricorrente nelle Americhe. I giornalisti, ma anche gli amministratori pubblici, hanno un ruolo fondamentale nel tenere barra dritta su serietà e chiarezza disinnescando la guerra tra ultimi – dove tutti ci perdono – il più possibile. Non è facile di questi tempi, ma è imperativo continuare su questa strada.A volte ci stupiamo dei gesti di sensibilità nei confronti di chi è diverso o straniero. Raccontare storie come quelle riportate nella suo libro quanto e come può aiutare ad includere e accettare il migrante?Far capire che è “normale” aiutare l’altro, che sia straniero o meno, è fondamentale. Mi ripeto: tutto parte da una domanda che bisogna porsi, ovvero “come vorrei essere trattato io se fossi al loro posto”. A seconda della risposta che ci si da, si capisce quanto si può fare sulla strada della sensibilità e dell’accettazione del diverso. Con tutti i diritti e doveri reciproci, sia chiaro. Le storie che raccontano rivelano tutta l’umanità di persone come noi che hanno scelto da che parte stare nell’aiutare chi è in difficoltà proprio perché si sono messe nei panni dell’altro.Nell’ “Isola dei Giusti” lei mette a confronto la normalità del bene con la banalità del male. A leggere la cronaca nazionale ed internazionale sembra che la seconda prevalga sulla prima. Secondo lei è perché i mezzi di comunicazione preferiscono fare da eco al male?Per alcuni mezzi di informazione la logica del maggiore numero di lettori o spettatori prevale e quindi c’è la gara a “titoloni” acchiappa interesse anche travisando gli accaduti o distorcendo l’informazione stessa. Questo è estremamente negativo. Non è un “fare da eco al male” in modo voluto ma l’effetto è quello, e quindi non è la strada giusta. Dovremmo interrogarci tutti sul modo di comportarci e rapportarci al fenomeno delle migrazioni a partire dal linguaggio usato, e agire di conseguenza: tenendo anche conto che denunciare e allontanare i discorsi malevoli significa essere “giusti”, non “buoni”, nel trattare questo tema.A settembre è stato a bordo della nave Aquarius nel corso della missione umanitaria dell’ONG Sos Mediterranée. Lo ha  raccontato tramite un diario di bordo. Quali sensazioni si porta dentro al suo rientro? Ci sono delle immagini, delle emozioni più ricorrenti?È stata in assoluto l’esperienza più importante a livello umano e giornalistico della mia vita. Vedere come giovani di ogni parte del mondo, esperti e comunque empatici a livelli altissimi, recuperavano da morte certa in mare centinaia di persone è un’esperienza che non dimenticherò mai. Da quando sono tornato sto decuplicando l’energia che avevo prima nel cercare di fare chiarezza su quanto accade, in ogni incontro pubblico, presentazione a altro momento in cui sono invitato a parlare. Le immagini più ricorrenti sono quelle dei momenti in cui le persone – uomini, donne, bambini, minori non accompagnati – vengono fatte salire una a una sulla nave, chi in difficoltà fisiche, chi in lacrime, chi già con la gioia per avere lasciato alle spalle l’inferno delle torture e la consapevolezza si potere iniziare di nuovo a vivere, anzi quasi una nuova vita.Qual è, in base alla sua esperienza, l’impatto che il codice di condotta per le ONG che operano nel Mediterraneo, varato su iniziativa del Ministro Minniti, ha avuto sui salvataggi in mare?Il codice ha avuto più impatto sull’opinione pubblica, spesso comunque confusa e malinformata da molti media sul tema, che non sulle ong. Perché molto di quello che c’è scritto è quello che già facevano prima del codice. Certo, ora è messo nero su bianco, ma anche prima ogni decisione delle navi delle ong era avallata dal Mrcc, Comando centrale della guardia costiera di Roma e rispettava la legge del mare che impone di salvare vite in pericolo. Molte organizzazioni infatti l’hanno firmato, in alcuni casi chiedendo e ottenendo clausole aggiuntive importanti – come l’autorizzazione a fare trasbordi, sempre su indicazione del Mrcc  – prima di firmarlo.Che idea si è fatto della prima accoglienza, ha notato uguaglianze o differenze fra l’accoglienza che ha registrato a Lesbo e quella che ha visto su Aquarius?Gli scenari sono diversi perché da una parte le persone arrivano a riva, quando va loro bene, e quindi l’assistenza è da terra o con piccoli gommoni, partiti dalla coste turche che sono pochi chilometri più in là. Ciò non vuol dire che sia meno pericoloso, anzi, l’acqua in quelle zone è sempre fredda anche d’estate e le onde possono alzarsi in poco tempo, ma lì l’aiuto è molto più diretto, immediato. Nel mezzo del Mar Mediterraneo, invece, è impressionante quanto bisogna sapere gestire ore di attesa, cambiamenti repentini di rotta, tempistiche più lunghe data la complessità delle operazioni in mare (anche solo calare una scialuppa dalla nave madre) e soprattutto l’avere a che fare con le autorità libiche che possono comportarsi in modi più o meno problematici senza una regola fissa, con conseguente costante preoccupazione da parte dei team di salvataggio. L’aspetto che rimane assolutamente uguale è l’indole altruista di chi salva: da tutto se stesso, senza se e senza ma, ed è un esempio da seguire, rapportandolo anche alla nostra quotidianità.

Marzia Castiglione(27 settembre 2017)

займ на карту онлайн круглосуточно rusbankinfo.ru