Apprendere la lingua italiana: che cosa significa? Quali sono i reali bisogni dello straniero che si trova ad affrontare le difficoltà quotidiane senza conoscere la lingua italiana, strumento principale di comunicazione, ancora prima che di cittadinanza? Sono domande queste, che mettono gli insegnanti di italiano L2 di fronte a un ventaglio di bisogni specifici spesso difficili da valutare.La complessa condizione del migrante è un panorama di paesaggi variegati che gli insegnanti hanno bisogno di imparare a conoscere, per poter dare il loro contributo fondamentale nella prima fase di insegnamento. Su queste tematiche si sono interrogate Elisabetta Aloisi e Adriana Perna, autrici di “Ataya – manuale multilivello per adulti con bassa o nulla scolarità pregressa” (Sestante Edizioni, 2016), che verrà presentato a Roma venerdì 27 ottobre, in occasione del ciclo di incontri che la Rete Scuolemigranti ha organizzato per approfondire e analizzare nuove metodologie didattiche. L’incontro, che si terrà in via S. Martino della Battaglia 9, dalle 15.00 alle 18.00, si articola in due giornate: quella di venerdì sarà una plenaria in cui verrà presentato il manuale, mentre nella giornata di sabato sarà lasciato ampio spazio ad esercitazioni e pratiche di didattica.”Ataya” è frutto del lavoro di un gruppo di insegnanti della cooperativa Ruah, attiva sul territorio bergamasco sin dal 1991, che ospita circa 1300 persone l’anno e porta avanti una continua formazione per i trenta insegnanti delle diverse scuole attive nelle città limitrofe. Le autrici e i collaboratori Lucio Guarinoni e Daniela Masserini, hanno condotto una ricerca sperimentale con i richiedenti asilo soggiornanti nelle strutture di accoglienza: “I primi ospiti sono arrivati nel 2011” racconta Elisabetta Aloisi. “Abbiamo notato subito una grande difficoltà: questi migranti, a differenza di altri, si trovavano costretti a venire a scuola. Il loro atteggiamento si mostrava all’inizio scarsamente motivato nel seguire i corsi di italiano. E questo ci ha portato a riflettere sul fatto che i richiedenti asilo non hanno, nelle prime fasi di permanenza in Italia, un vero e proprio progetto migratorio”.“Questa situazione si spiega col fatto che la maggior parte di loro, nelle precedenti esperienze di vita, ha imparato la lingua del paese ospitante tramite il lavoro, non sui banchi di scuola”, continua Elisabetta, “i richiedenti asilo possono aver già lavorato in altri paesi, senza contare che nel loro trascorso sono quasi sempre presenti esperienze traumatiche, come la tratta, la detenzione e le torture. Inoltre, sperimentare l’italiano nella quotidianità non è sempre facile: molti studenti hanno preso il loro tempo per ambientarsi. Solo quando se la sono sentita, hanno iniziato a frequentare i corsi“.Difficile compito quello degli insegnanti, dunque: da una parte, vi è la necessità di fornire le basi di una lingua con cui esprimersi, dall’altra la consapevolezza che l’arrivo del migrante ricevuto in una struttura di accoglienza è un momento di passaggio molto delicato, in cui lo studio di una lingua non è un’attività così scontata. Creare uno spazio di accoglienza è stata la priorità del gruppo di insegnanti della cooperativa e l’esigenza di adattare la didattica ai bisogni specifici di questi giovani, dai 18 ai 30 anni, è diventata sempre più forte. Così, nel giugno 2014 viene messo in cantiere “Ataya”, ideato proprio per questa tipologia di studenti: un manuale innovativo che nasce da anni di materiale sperimentato in classe e cucito sui bisogni degli apprendenti.La parola “ataya” è pura condivisione: è una parola wolof che significa “tè”, radice poi usata in molte lingue occidentali. Il tè richiede tempo, per la preparazione, così come per essere degustato. Si sorseggia insieme chiacchierando, condividendo, arricchendosi di momenti preziosi.”Nel manuale abbiamo inserito degli elementi di novità: in primis, la scelta tematiche. Notavamo che alcuni libri di testo trattano temi quali la famiglia, la casa, a cui si aggiungono unità didattiche incentrate sul lessico della banca o dell’ufficio postale”. Gli uffici pubblici non rappresentano un’ambientazione familiare ai neo-arrivati ospiti dei centri, così come spesso, quello della famiglia è un tema sensibile sul quale il migrante a volte non desidera esprimersi. Quali sono dunque gli elementi caratteristici del manuale?Elisabetta spiega che in “Ataya” uno spazio privilegiato è occupato dal tema della salute, al centro dell’interesse di qualsiasi migrante. Ma non solo: “nel nostro libro c’è tanta interculturalità, ci sono anche foto dell’Africa”. Il manuale inoltre, arricchito da quest’anno con le tracce audio, presenta una gamma di esercizi comprendenti il lessico che attinge alla lingua madre del migrante, perché il suo bagaglio linguistico e culturale venga valorizzato, creando così anche una concreta consapevolezza delle sue competenze: “a volte sentiamo i ragazzi dire Ma io parlo solo inglese o Conosco solo il mio dialetto e parlo in francese, non rendendosi neanche conto dei loro punti di forza e delle possibilità lavorative che potrebbero avere”, continua l’autrice.Interculturale, ma anche sperimentale: il libro propone unità didattiche concepite sulla base delle reali esperienze fatte dal gruppo docenti con i richiedenti asilo, come le uscite in città, visite alla biblioteca comunale, o spesa nel supermercato assieme agli insegnanti. “Così cerchiamo anche di costruire un legame più vivo con il territorio. Nel libro ci sono fotografie scattate da noi durante le nostre lezioni extra-scolastiche”. Attività che stimolano i ragazzi, che una volta ambientati, dimostrano una gran voglia di fare: “l’esigenza del fare ci ha portato ad affiancare costantemente attività manuali a esercizi scritti e orali. Molti ragazzi sono scarsamente alfabetizzati e l’analfabetismo richiede manualità. Ad esempio, per spiegare tematiche complesse, come l’iter legislativo che precede l’ottenimento dei documenti – una fase di attesa che preoccupa e suscita ansie – abbiamo creato in classe una linea del tempo con immagini esplicative“. Lavoro che documenta la stretta correlazione tra l’insegnamento della lingua e l’ambito legale, di cui si occupano gli operatori. Lingua non come esercizio di stile dunque, ma come veicolo ineludibile per comprendere e vivere nel territorio.Tramite una pratica didattica “accogliente”, gli insegnanti di Ruah sono riusciti a rispettare i tempi e le modalità di apprendimento dei migranti, giovani provenienti da Senegal, Mali, Gambia, Eritrea, Afghanistan, Nigeria. Molti di loro, dopo qualche anno, sono diventati mediatori culturali nella cooperativa o hanno trovato altri impieghi. Alcuni sono partiti, altri sono ancora nel centro di accoglienza. L’esperienza della scuola ad ogni modo resta per loro un punto di riferimento, un momento di vero scambio e partecipazione.
Elisabetta Rossi
(25 ottobre 2017)
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