Immigrazione. Cambiare tutto, l’ultimo libro del sociologo Stefano Allievi, verrà presentato il 22 maggio alle h. 17.30 nella Biblioteca Europea, Via Savoia 13/15: l’autore ne parlerà con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. Il libro ha anche dato vita in alcune città italiane a una conferenza-spettacolo che in autunno arriverà a Roma.È un libro serio, ricco di analisi e proposte, per cui abbiamo voluto approfondire alcuni nodi con l’autore.Nell’introduzione lei dice che il libro nasce da un’urgenza etica e deontologica, derivante da ciò che osserva nella società italiana. Perché questa urgenza?In questo periodo è sempre più evidente il rifiuto dell’accoglienza dei migranti e in alcune regioni come il Veneto, dove vivo, si è manifestato in maniera più forte di quanto venga percepito a Roma, intesa come luogo delle istituzioni. Quindi ho cercato di rivedere tutta la questione dell’immigrazione dall’inizio, assumendo anche il punto di vista di chi ha timori e dubbi, perché le paure della gente di fronte a un grande cambiamento come quello in atto sono legittime e devono essere prese in considerazione, spiegando cosa stia succedendo e cambiando l’approccio con cui finora si è affrontato il problema, da qui il richiamo del titolo a “cambiare tutto”. Gli schieramenti ideologici di strumentalizzazione o demonizzazione delle paure sono dannosi; non serve dire: sono contrario all’immigrazione perché prima veniamo noi italiani o sono favorevole perché è giusto essere solidali. Ciò che serve è prestare ascolto e indicare soluzioni ai problemi. Poi, certamente, nell’indicare le soluzioni agiscono ragioni di principio – le migrazioni sono necessarie, utili e anche giuste −, ma è sul terreno concreto che si misura la capacità di far fronte ai cambiamenti.Questo prevalere nel dibattito pubblico di schieramenti ideologici e strumentalizzazioni a danno della capacità di ascolto non deriva anche da una crisi culturale che si manifesta nella povertà di argomenti?Sì, infatti quello che ho cercato di fare con il libro è di fornire argomenti, riconsiderando a monte e a valle le ragioni dell’attraversamento del Mediterraneo, dalle cause delle partenze agli arrivi in Europa e Italia, per costruire un ragionamento che desse un contributo di senso. Naturalmente questo mio contributo si fonda su opzioni etiche, ma vuole essere un tentativo di dare indicazioni sul piano pragmatico. Del resto la questione migratoria, insieme a quella demografica, è talmente grossa che non si può più evitare di affrontarla in modo serio e ragionevole.Però il suo contributo presuppone l’esistenza di un soggetto politico capace di dare risposte ai problemi e governarli. E non sembra di vederlo all’orizzonte.Chiunque sia al governo del Paese deve mettersi alla prova sulle grandi questioni di oggi, tra cui immigrazione e calo demografico, e non può cavarsela con slogan e ideologismi. Questi possono funzionare per un po’ e creare consensi, ma alla lunga chi governa o amministra un territorio deve necessariamente trovare le soluzioni, perché la gente vuole risposte ai problemi che impattano con la sua vita. Qui è la sfida tra destra, sinistra e altro: trovare soluzioni che stiano in mezzo tra i due estremi di chi vuole respingerli e chi vuole accoglierli senza limiti.Nel libro inquadra la gestione inefficiente dell’immigrazione come un aspetto di una più generale mancanza di politiche per lo sviluppo del Paese. In che senso?L’immigrazione è uno dei problemi generali dell’Italia. Noi abbiamo un’idea di governo astratta, diversificata a seconda delle zone del Paese, tra Nord e Sud; la nostra burocrazia risponde a logiche che non sono di efficienza e produttività; il mercato del lavoro e della formazione ha bisogno urgente di interventi efficaci. Anche se non arrivassero più gli immigrati, continueremmo ad avere il problema dei nostri emigrati. Se non si affrontano questi nodi avremmo lo scenario della Grecia, di uno Stato che non c’è.Sull’immigrazione finora ci siamo mossi con una politica dell’emergenza, giustificata dall’esplosione del fenomeno. I Cas, per esempio, nati per l’accoglienza straordinaria, dopo un po’ devono essere chiusi. Bisogna far rientrare l’immigrazione nella politica ordinaria e gestirla non come emergenza ma come opportunità per creare sviluppo per il Paese.Come? E come si risponde all’obiezione che, data la crisi economica, prima bisogna pensare agli Italiani?Facendo una politica lungimirante dell’integrazione che crei legame sociale e utilità anche per gli Italiani. Investire in formazione linguistica, culturale e professionale non è una spesa improduttiva, bensì un fattore di sviluppo; attivare percorsi di formazione e orientamento al lavoro significa creare opportunità anche per i nostri soggetti deboli del mercato del lavoro. È vero che l’immigrazione, soprattutto con le prime generazioni, comporta conflittualità, ma è la mancanza di uno Stato sociale che rende più aspri quei conflitti. Entrare nella logica di una politica ordinaria delle migrazioni significa rivedere tutto il sistema di welfare. I Paesi europei citati sopra hanno un welfare istituzionale molto solido, mentre il nostro è un Paese povero di infrastrutture sociali. Da noi c’è il privato sociale che si arrabatta, ma in molti casi è capace di progettualità interessanti; ci sono tante esperienze positive fatte dalle cooperative che localmente si occupano di migranti e che hanno in alcuni casi creato posti di lavoro anche per gli autoctoni. Il problema è che manca una valutazione di ciò che funziona − e quindi potrebbe essere replicato altrove − e ciò che non funziona − e non merita quindi di partecipare a nuovi bandi.Il quadro generale che delinea nel libro è preoccupante: arrivano immigrati con bassa istruzione; se ne vanno giovani qualificati; la popolazione invecchia ed è in calo; la ricchezza diminuisce e il ruolo in Europa è più debole. C’è da essere pessimisti?Sul piano dell’analisi sono pessimista per quanto riguarda la capacità di trasformarsi del Paese, però sono ottimista nel momento in cui mi pongo su un piano pragmatico e cerco di suggerire delle soluzioni. In un’Europa che perde più di 3 milioni di lavoratori l’anno, che non vengono sostituiti perché chi dovrebbe sostituirli non è nato, il fatto che arrivino 500.000, 1 milione di immigrati non è un pezzo del problema ma della soluzione, se ben gestito. E una buona gestione presuppone piani di investimenti in formazione linguistica, culturale e professionale, come fanno in Germania e in Scandinavia, dove spendono tanto di più dei nostri 35 euro al giorno per migrante. L’integrazione riduce i conflitti, soprattutto con le seconde generazioni. Quindi bisogna investire su questi ragazzi.Nel libro parla di meccanismi di selezione dei migranti, prima che arrivino. Perché sono necessari?Da noi la selezione è un tabù. Invece io penso che la sovranità dello Stato si esplichi anche nel controllo dei confini, che significa decidere chi entra e chi esce. In tutto il mondo si controllano i confini e meccanismi di selezione impliciti ci sono anche nella libera circolazione europea dei nostri. Questo comporta la creazione di canali regolari per gli arrivi, facendo una programmazione: attraverso la regolarizzazione degli arrivi eviti che il migrante si affidi ai trafficanti e lo inserisci in un percorso di integrazione − cioè formazione, lavoro e alloggio. Ovviamente questo non riguarda i rifugiati che fuggono da guerre e violenze, e devono poter arrivare attraverso i corridoi umanitari.Che fare per creare un sistema di governo dell’integrazione?Ci vorrebbe un’agenzia nazionale con suddivisioni regionali che, invece di affidare la gestione a singole cooperative attraverso i prefetti, metta insieme i soldi, istituisca una figura come un commissario e coordini le varie agenzie del lavoro. In Europa si sta procedendo in questo modo riformando Frontex e investendo più soldi, con l’idea che non si occupi più solo di frontiere, accoglienza e salvataggi, ma di tutta la filiera fino all’integrazione.
Luciana Scarcia(14 maggio 2018)
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