Il lavoro industriale oggi e l’integrazione degli immigrati sono due aspetti della realtà che si conoscono poco. Il film documentario di Andrea Segre su Marghera, Il pianeta in mare, è un contributo importante per capire il lavoro industriale oggi nel mondo globalizzato, la riduzione del welfare sociale e il nesso tra immigrazione e compressione dei diritti di tutti. Nel racconto di Marghera oggi, dove vivono e lavorano persone di ogni parte del mondo, si alternano le immagini del passato con i cambiamenti prodotti da sviluppo economico, lotte sindacali e distruzione ambientale.
Qual era il suo scopo nel girare un film su Marghera?Lo scopo era quello di attirare l’attenzione su un luogo in cui il passato è molto pesante e il presente e futuro sono poco osservati. C’è una grande rimozione oggi del ruolo che hanno nell’economia italiana le zone industriali, pur strategiche come Marghera. E dentro questa rimozione c’è anche il tema dei lavoratori stranieri, che a Marghera sono di oltre 65 nazionalità. Negli ultimi tempi la nostra attenzione al tema dell’immigrazione è stata rivolta quasi esclusivamente agli sbarchi in mare, mentre è rimasta in ombra la realtà, sicuramente più interessante e diffusa, della presenza di tanti lavoratori stranieri in luoghi importanti per l’economia.Quindi la Marghera del suo film è un luogo emblematico di tanti aspetti della realtà di oggi…Sì, non è solo Marghera ma rappresenta altre realtà simili e tanti aspetti problematici del nostro presente. È interessante, per esempio, che in quanto zona industriale sia un luogo che ha sempre attratto manodopera, prima dall’entroterra o dal Sud Italia e oggi dall’Africa, dal Bangla Desh ecc. Sono luoghi in cui la presenza di tante persone di diverse nazionalità costituisce la base di potenziali tensioni sociali e politiche, in assenza di interventi pubblici di welfare sociale e interculturale. E questo è un altro aspetto della generale rimozione che non fa sentire agli amministratori pubblici l’urgenza di azioni concrete che lavorino sulle differenze. La scena del film in cui due operai rumeni nella pausa pranzo parlano del problema di trovare casa racconta proprio di questa assenza dello Stato, che lascia i problemi sociali al libero mercato.
Nella stessa scena i due operai già integrati fanno una battuta sui bangladesi, ultimi arrivati, considerati la causa dei loro problemi. Lo stesso meccanismo degli italiani che se la prendono con gli immigrati. Cosa ci dice questo sulla paura dell’immigrazione?Si tratta di un meccanismo “trasversale” che non ha origine in un sentimento di xenofobia o razzismo ma proprio in quell’assenza di intervento pubblico: è naturale che sorgano tensioni in una realtà complessa in cui convivono tante persone diverse, ma se si lasciano le persone a sé stesse con i loro problemi accade facilmente che qualcuno sfrutti quelle tensioni e quel disorientamento dirigendoli verso xenofobia e razzismo. I due operai della scena potrebbero trovare un leader rumeno che in quella tensione verso i bangladesi trova un humus fertile per campagne nazionaliste. La responsabilità di questo sta sempre in quella rimozione di cui parlavo prima: se io non so che le navi della Fincantieri vengono saldate dagli operai stranieri che lavorano al caldo e freddo e respirano i vapori del metallo saldato, se cioè non viene messo in chiaro il ruolo che gli stranieri hanno in un settore strategico del nostro sistema economico, facilmente mi lascio convincere da qualcuno che gli immigrati sono un problema. Aggiungo che per smontare quel meccanismo bisogna conoscere la realtà e non ci vuole molto: basta entrare in quei luoghi.
Che nesso c’è tra immigrazione e riduzione dei diritti?Il punto è sempre quello della mancanza di intervento pubblico. Lasciate a sé stesse le persone cercano riferimenti e appoggio nel proprio gruppo etnico e il rischio di questa situazione è che si produce l’etnicizzazione dei diritti; quando si applica una diversificazione del salario a seconda che l’operaio sia africano o rumeno si finisce per comprimere i diritti di tutti. Ci sono sì forme di resistenza, nelle minoranze attive, associazioni, parrocchie, ma quello che manca è un progetto integrato. E anche questo è un altro aspetto della rimozione.In una scena c’è un operaio africano che guarda soddisfatto una parte della nave che ha contribuito a costruire, ne è orgoglioso. Che significa quella scena?Che il lavoro ha un valore in sé, costa fatica e competenza. E questo dovrebbe bastare a metterlo al di sopra di tutte le differenze etniche. Bisognerebbe quasi evitare di parlare di immigrazione e mettere al primo posto il rispetto per il lavoro e la fatica, che sono “trasversali”. Girando per la Fincantieri abbiamo sentito il canto-preghiera che un saldatore bangladese cantava proprio per accompagnare la fatica del lavoro suo e degli altri. Per questo abbiamo voluto inserirla nella colonna sonora del film.Nel film si alternano due epoche, quella delle lotte sindacali e quella dell’assenza del sindacato e dei diritti ridotti per tutti, italiani e stranieri. C’è nostalgia per quel periodo? O pessimismo verso il futuro?No, non è nostalgia del passato che, ricordiamolo, ha anche violato un territorio producendo inquinamento e danni alla salute; e non c’è assenza di futuro perché ci sono le persone che vivono e lavorano e hanno voglia di trovare nuove forme di protagonismo, ma questa voglia di nuovo non si traduce in rivendicazioni o proposte concrete, non è tematizzata. Quindi non c’è pessimismo, piuttosto parlerei di malinconia per non sapere come andare avanti. È disorientamento per il cambiamento in atto: Marghera è un luogo di metamorfosi, disorientato da questa metamorfosi. Roma, Cinema Apollo 11: Proiezione di Il pianeta in mare, con sub inglese e dibattito – 30 ottobre h.17.30
Luciana Scarcia(21 ottobre 2019)
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