La realtà dell’immigrazione è diversa da quella che ci viene raccontata: non è vero che si tratti prevalentemente di poveri, africani, musulmani e non è vero che i flussi migratori si dirigano soprattutto dai Paesi più poveri verso quelli ad alto livello sviluppo.
Il libro L’invasione immaginaria del sociologo Maurizio Ambrosini dimostra con argomenti e dati che la rappresentazione dell’immigrazione è falsata da scarsa conoscenza e luoghi comuni, tanto nel campo di chi ha posizioni di chiusura quanto in quello opposto e che, pur con risposte diverse, entrambe alimentano una percezione lontana dalla realtà.
Innanzitutto dei 272 milioni circa di immigrati a livello mondiale una buona fetta (112 milioni) si spostano verso Paesi in via di sviluppo, direttrice Sud – Sud. In Italia l’eccessiva visibilità degli sbarchi ha distorto la realtà di un fenomeno sostanzialmente stabilizzato da anni, di cui sbarchi e asilo sono una ristretta componente e che è costituito prevalentemente da europei (di cui 1,5 milioni provenienti dalla UE), donne e cristiani, che provengono da Paesi non poverissimi bensì di livello intermedio per sviluppo economico e sociale, perché per partire servono soldi, accesso alle informazioni e livello minimo culturale.
La rappresentazione distorta dell’immigrazione a destra e a sinistra
“Sull’immigrazione – afferma Ambrosini – c’è un’egemonia culturale di un arco di forze che, mettendo insieme antichi nazionalismi, pulsioni razziste, ansie e paure rispetto alla globalizzazione, dà una lettura dell’immigrazione come patologia. Su questa lettura converge lo schieramento opposto che ha sinceramente a cuore i destini dell’Africa, i popoli del Terzo Mondo, condanna il colonialismo e lo sfruttamento, si nutre di letture anticapitaliste; e già sulla critica alla globalizzazione si salda col primo. Però questa operazione apparentemente logica per cui le migrazioni sono una patologia e gli immigrati arrivano perché sono stati spogliati di tutto e sfruttati dal mondo ricco genera, nel migliore dei casi, un’accoglienza dettata dal senso di colpa.
Ma il punto è che non corrisponde alla realtà; non è vero che arrivano dai Paesi più poveri né soprattutto dall’Africa. E l’Italia, in particolare, è sotto la media europea per accoglienza; da noi i rifugiati sono meno del 5% dei rifugiati in UE. Quindi se si guardano i numeri risulta evidente la distanza tra percezione e realtà”.
Quindi una maggiore conoscenza del fenomeno reale potrebbe portare a politiche più lungimiranti?
“Dubito che più conoscenza produrrebbe facilmente e rapidamente soluzioni migliori – l’Illuminismo è finito da un pezzo –; basta pensare alla demagogica richiesta di dimissioni del Ministro dell’Interno avanzata in questi giorni a seguito dell’atto terroristico compiuto a Nizza da un tunisino sbarcato a Lampedusa. Gli attori della comunicazione e della politica al massimo si vanno a cercare quei dati che, ben confezionati, confermano le loro opinioni. Ma è sicuramente una battaglia da fare quella di indurre i decisori a ragionare sui dati effettivi”.
Oggi la paura è un sentimento reale che spinge alla chiusura. Cosa deve fare la politica per contrastare questa tendenza?
“Si tratta di capire che tipo di risposta si vuole dare. Minniti, per esempio, ha dato una risposta ‘pavloviana’, cioè allo stimolo della paura do la risposta desiderata: vedo un rischio per la tenuta democratica nel diffondersi della paura, quindi faccio accordi con la Libia per trattenere i migranti e così assecondo l’opinione pubblica.
Poi esiste una risposta più fine, articolata su due livelli: il primo, rassicurare la popolazione sulle grandi paure e incertezze della globalizzazione, come si sta cercando di fare oggi con la pandemia per non abbandonare a sé stesso chi ne subisce i danni; il secondo, raccogliere le indicazioni derivanti dalle ricerche che mostrano come la conoscenza diretta degli immigrati riduca la diffidenza: cioè creare occasioni di incontro e scambio. Ma non solo con le cene multietniche e i risotti in piazza, piuttosto lavorando sul tessuto sociale, promuovendo l’associazionismo di quartiere, le attività dei genitori attorno alle scuole, le iniziative dei cittadini sul territorio che coinvolgano gli immigrati. Questa è la medicina contro la paura, che ha una natura fantasmatica”.
Ritiene che i tempi siano maturi per un approccio più serio al tema? Come valuta il recente Decreto Legge Immigrazione?
“Anche se tra contrasti e molti limiti, alcune decisioni recenti votate dal Parlamento sono senz’altro un passo avanti. Il Decreto sulle regolarizzazioni è un provvedimento eccezionale: a parte la minisanatoria del Portogallo, che però riguarda un numero assai ristretto di immigrati irregolari, l’Italia è l’unico Paese europeo che ha regolarizzato migliaia di lavoratori irregolari. Scelta coraggiosa nonostante la parzialità delle categorie coinvolte. Il Decreto Immigrazione è vero che non ha avuto il coraggio di eliminare la persecuzione delle ONG – fatto grave anche culturalmente – e ha ridotto di troppo poco, da 4 a 3 anni, il tempo per la risposta alla domanda d’asilo; tuttavia bisogna dare atto a questo governo di un parziale cambiamento di prospettiva”.
Al tema delle famiglie di immigrati lei ha dedicato il libro Famiglie nonostante del 2019 e in questo un nutrito capitolo. La dimensione familiare – lei scrive – occupa una posizione cruciale nelle dinamiche migratorie e la politica dovrebbe investire su essa. Perché?
“Innanzitutto perché ragiono sui numeri: la maggior parte degli immigrati in Italia negli ultimi 15 anni è entrata per ricongiungimento familiare. E poi per un motivo di coesione sociale: le famiglie immigrate si integrano di più, hanno i figli che vanno a scuola, si interessano di più alla vita del quartiere, sono più motivati ad avere un lavoro regolare e a vivere nella legalità. L’integrazione familiare è un investimento per il futuro.
Inoltre – potremmo dire con una battuta – “li tengono in riga le mogli”, infatti il maschilismo esiste poco dentro casa, dove le madri sono il perno; naturalmente ci sono tanti tipi di immigrati ma le donne generalmente hanno acquisito maggiore considerazione e capacità di parola. Anche le forme di prevaricazione come obbligare la figlia al matrimonio voluto dai genitori sono guidate più dalle donne.
L’Europa è indietro rispetto a questo: tutti i diritti riconosciuti alle famiglie con o senza matrimonio e alla genitorialità non valgono per quelle famiglie immigrate, che devono superare tutta una serie di prove – case di certe dimensioni, reddito ecc. – per poter vivere unite. La prevalenza universale riconosciuta alla relazione madre-figlio viene dimenticata nel caso delle tante donne che emigrano per amore dei figli e si separano da loro con grande sofferenza”.
Lei scrive: “le frontiere sono oggi il maggiore fattore della diseguaglianza nel mondo” e in un altro passo “l’UE si è mostrata inadeguata a sostenere la propria immagine di faro dei diritti umani”. L’indebolimento della solidarietà nella gestione dell’immigrazione può tradursi in un indebolimento della coesione sociale interna?
“Se si comincia a discriminare chi merita accoglienza e chi no ci si mette su una china pericolosa per la coesione sociale. Se teniamo fuori chi ci fa paura o temiamo possa sottrarci qualcosa, si arriva facilmente a chiedersi se i senza fissa dimora abbiano diritto all’assistenza o i tossicodipendenti alle cure e così via. Ne deriverebbe un modello di società chiusa, rancorosa e incapace di solidarietà perché incapace di speranza”.
Ragionare sulla programmazione degli ingressi richiede un criterio selettivo. Come si concilia con l’universalità del principio di solidarietà?
“Ricordiamoci intanto che emigra solo il 3,6% della popolazione mondiale e solo una piccola parte verso l’Europa, e che ci sono tante diverse categorie di immigrati. Programmare quote d’ingresso per lavoro, incoraggiando la cooperazione, è sicuramente possibile, come dimostra il Canada (400mila all’anno per i prossimi 3 anni). Ci sono gli ingressi per lavoro stagionale che, ripetuti per 5 anni, possono dar diritto a permessi permanenti. Del resto che l’Europa abbia bisogno degli immigrati è un fatto: per esempio in questo periodo di pandemia in Italia lavorano 22mila medici stranieri e 77.500 operatori sanitari.
Un conto sono gli ingressi per lavoro, su cui necessariamente si devono adottare criteri selettivi; un altro è l’accoglienza umanitaria: a chi fugge da guerre e violenze deve essere garantito il diritto a essere accolto. Quindi, non si può sostenere l’universalismo della tutela all’interno e la discriminazione verso chi fugge dalla Siria”.
Luciana Scarcia
(2 novembre 2020)
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