Migranti climatici o ambientali, ecomigranti, rifugiati ambientali o climatici, profughi ambientali: la confusione che accompagna la definizione di questi migranti riflette pienamente l’indeterminatezza giuridica cui sono sottoposti. Non si tratta infatti né di migranti economici in senso stretto, ma neanche di coloro che, in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, possono essere definiti rifugiati. Il mancato riconoscimento dello status giuridico dei migranti ambientali fa sì che sia molto difficile ottenere una stima affidabile del loro ammontare complessivo: invisibilità normativa e invisibilità statistica rappresentano due facce della stessa medaglia.
Seppure già da diversi anni si sia iniziato a parlare di migranti ambientali, la risposta della comunità internazionale e del nostro paese rispetto alla loro tutela giuridica risulta ancora largamente inconsistente.
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Migranti climatici: i nodi da sciogliere
Non è facile inquadrare il fenomeno dei migranti climatici o ambientali: non esistendo una definizione giuridica ad hoc, risulta difficile operare una prima fondamentale distinzione tra migrante climatico in senso stretto e migrante economico. Quando si parla di migrazioni ambientali bisogna tener presente, in misura maggiore rispetto ad altre storie migratorie, che si tratta del risultato dell’interrelazione di diversi fattori che finiscono per incidere sulla scelta migratoria. Povertà, fattori ambientali, conflittualità sociale sono fenomeni strettamente intrecciati, di cui è difficile ricostruire il nesso di causalità. Persone provenienti dalla stessa zona possono reagire diversamente a una stessa calamità naturale, decidendo di rimanere o di spostarsi, a seconda del bilanciamento dei diversi fattori in gioco.
Un’altra variabile da tener presente nella definizione di migrante ambientale è la distinzione tra coloro che sono stati colpiti da calamità naturali a rapida insorgenza (terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche, cicloni ecc.) o a lenta insorgenza (siccità, desertificazione, innalzamento del livello del mare ecc). Nel primo caso si tratta di una condizione che trova maggior accoglimento in ambito internazionale. Il secondo caso si scontra invece con l’obiezione per cui, trattandosi di una tipologia di fenomeni che le popolazioni umane hanno dovuto fronteggiare da sempre nella storia, non risulterebbe meritevole di una specifica tutela giuridica.
Gli sfollati interni per cause ambientali
Secondo il Global Report on Internal Displacement 2020 nel 2019 si è registrata la cifra record di 50.8 milioni di sfollati interni, o IDPs (Internally Displaced Persons), cioè coloro che sono costretti ad abbandonare il proprio habitat senza varcare, tuttavia, i confini nazionali. Di questi ben 5.1 milioni, circa il 10%, sono sfollati a causa di disastri ambientali e si tratta di un dato ancora fortemente sottostimato. Nello stesso anno, inoltre, si sono registrati ben 24.9 milioni di sfollamenti, cioè di spostamenti forzati all’interno del paese, sempre a causa di disastri ambientali. Questo significa che un singolo sfollato subisce più spostamenti prima di trovare una sistemazione più o meno stabile.
La distinzione tra sfollati interni e profughi o migranti influisce notevolmente sulla loro tutela giuridica: i primi infatti si trovano ancora sottoposti la tutela del paese di origine, mentre i profughi sono protetti dal diritto internazionale dei rifugiati e devono rivolgersi a paesi terzi per avanzare la richiesta di asilo.
Chi tutela i migranti ambientali?
La tutela dei migranti ambientali non è prevista né dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che stabilisce i criteri per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, né dalla successiva direttiva 2011/95/UE che istituisce la protezione sussidiaria sul territorio dell’Unione Europea.
Eppure già nel 1985 il rapporto UNEP, Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, ha dato una prima definizione di rifugiati ambientali per designare “coloro che abbandonano il proprio habitat, temporaneamente o permanentemente, a causa di catastrofi ambientali marcate”. Nel 2007 l’OIM ha modificato la denominazione, utilizzando il termine migranti ambientali per indicare tutti coloro che fuggono da disastri ambientali, sia a breve che a lunga insorgenza.
La comunità internazionale, dunque, discute di migranti ambientali da almeno 35 anni. Tardano ancora ad arrivare risposte chiare, malgrado documenti ufficiali recenti, come la Dichiarazione di New York su rifugiati e migranti del 2016, abbiano ribadito che i fattori climatici rientrano nel novero delle cause principali di migrazione.
In ambito europeo, inoltre, è prevista la possibilità di ricorrere, in via eccezionale, alla protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati che non possono far ritorno in sicurezza nel paese di origine. Questa procedura non è stata mai attivata e, soprattutto, non include gli sfollati ambientali tra i possibili beneficiari.
Il contesto italiano
Attraverso la concessione della protezione umanitaria l’obbligo di protezione per coloro che scappano da disastri ambientali ha trovato una parziale attuazione in Italia fino al 2018. Con l’abolizione della protezione umanitaria ad opera del decreto sicurezza del 2018, tuttavia, è stato introdotto il permesso di soggiorno per calamità naturale, della durata di 6 mesi, per tutelare lo straniero che non può tornare nel paese di origine in sicurezza a causa di una situazione di “contingente ed eccezionale calamità”. Questo significa che sono stati esclusi tutti coloro che sono vittime di calamità naturali con effetti di lungo periodo.
Il D.L. 130/2020, che introduce la definizione di “grave calamità”, sembra invece ampliare la nozione di permesso di soggiorno per calamità naturale, segnale di una probabile apertura nei confronti dei migranti per motivi ambientali, anche di lungo periodo.
Silvia Proietti
(25 novembre 2020)
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