La comunità capoverdiana ha una lunga storia che comincia negli anni ’60 con le prime donne che venivano per lavoro domestico, grazie alla mediazione delle opere missionarie cattoliche in alcune isole povere di Capoverde, e continua nel tempo con i nuclei familiari stabilmente inseriti e le seconde, terze e quarte generazioni. Quelle ragazze degli anni ’60 sono diventate madri e nonne di ragazzi che crescono, studiano e lavorano in Italia, ma per la legge italiana restano stranieri.
“Io sono nata negli anni ’90 da genitori capoverdiani che lavoravano in una famiglia in zona Piazza Bologna – dice Sonia Lima Morais, operatrice legale e mediatrice familiare e culturale – ho frequentato le scuole del quartiere, mi sono laureata e mi definisco prima generazione italiana di origine straniera”. Con determinazione Sonia pone l’attenzione sul linguaggio che, per una sorta di automatismo, identifica i figli di immigrati nati in Italia con l’espressione “seconde generazioni”, rivelando la superficialità con cui si guarda al tema dell’immigrazione e l’insipienza di una classe politica che non è ancora stata capace di riconoscerli come cittadini soggetti di diritti e doveri al pari dei loro coetanei.
“Di seconde o terze generazioni si parla poco e male – afferma –, siamo assimilati ai nostri genitori e restiamo nel minestrone degli stranieri. Mancando una legge – e io come giurista sono convinta che sia la legge a creare le consuetudini sociali – si generano confusione e conflitti pure fra di noi, anche perché la comunicazione fra genitori e figli è poca. Una grande responsabilità nella mancanza di una legge ce l’ha la sinistra, frenata dal timore di perdere consenso e, in buona sostanza, per pigrizia o menefreghismo”.
Stranieri in Italia e a Capoverde
Qual è la logica, infatti, nel non riconoscere come cittadini italiani i figli nati in Italia da genitori immigrati pienamente integrati, come la comunità capoverdiana, che non solo lavorano nel nostro Paese ma partecipano anche alla vita sociale, culturale e istituzionale? Il mancato riconoscimento giuridico non è solo negazione di diritti per loro, ma ostacola anche la trasformazione dinamica della società, perché non hanno accesso pieno a occasioni di formazione (ad esempio l’Erasmus) e lavoro. E al contempo mette in luce l’immobilismo delle istituzioni italiane, arroccate nella difesa della cittadinanza come presunto baluardo di un’identità che resiste alle trasformazioni.
Ancora una volta bisognerebbe riflettere sul linguaggio; alla parola ‘integrazione’ Sonia preferisce ‘interazione’: “la prima presuppone un rapporto diseguale, mentre è l’incontro, lo scambio che rendono viva una società”.
La comunità capoverdiana ieri e oggi
In mezzo secolo di immigrazione la comunità capoverdiana rappresenta emblematicamente un processo di crescita, partecipazione e integrazione – o interazione, come preferisce Sonia – profondamente cambiata nel corso degli anni.
“Negli anni ’90, con la normativa sui ricongiungimenti e le sanatorie – spiega – c’è un boom delle nascite in Italia. A differenza dalla generazione di figli cresciuti nei collegi capoverdiani o con le nonne e arrivati in Italia tra gli anni ’80 e ’90, la mia generazione è stata più fortunata perché è cresciuta nella società e cultura italiane, conservando il patrimonio culturale dei propri genitori. Ciò non vuol dire, tuttavia, che siamo tutti uguali perché non siamo riconosciuti come cittadini italiani”.
La più antica associazione di immigrati in Italia
La OMCVI (Associazione delle donne capoverdiane in Italia) è nata nel 1988 per creare uno spazio di incontro, scambio e sostegno alle donne immigrate; ha ampliato il suo raggio d’azione occupandosi, oltre che della promozione dei diritti delle donne e dell’infanzia, anche di vari temi legati alle migrazioni. Organizza iniziative per favorire lo scambio interculturale; realizza progetti di partenariato globale per lo sviluppo dell’arcipelago capoverdiano; con la Radio B-leza cura la comunicazione sull’attività dell’associazione e offre servizi informativi di tipo legale e altro. Sonia Lima Morais ne è la presidente.
“La nostra – spiega – è una comunità molto unita, di grande collaborazione e sostegno reciproco. Ci riuniamo 2 giorni a settimana in alcune sale messe a disposizione dal centro delle Suore Missionarie del Sacro Cuore in via Sicilia, dove in passato la chiesa organizzava corsi di italiano e forniva assistenza. Ora è diventato uno spazio vitale per la comunità: organizziamo eventi in collaborazione con l’Ambasciata o altre realtà romane, come la Casa Internazionale delle Donne o iniziative per favorire l’incontro; abbiamo anche attivato uno sportello familiare per accompagnare i genitori in difficoltà nell’educazione dei propri figli e nell’affrontare i conflitti intergenerazionali. Abbiamo anche dei progetti di empowerment femminile a Capoverde per le donne vittime di violenza domestica”.
Luciana Scarcia
(16 febbraio 2021)
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