Quante sono le lavoratrici agricole? La componente femminile impegnata nel lavoro agricolo in Italia è consistente, come dimostra lo studio Analisi di genere delle politiche di prevenzione e contrasto dello sfruttamento lavorativo in agricoltura realizzato nell’ambito del progetto “Supporto al rafforzamento della governance inter-istituzionale sullo sfruttamento in Italia”, a cura di Maria Grazia Gianmarinaro e co-finanziato dall’Unione Europea in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). L’analisi raccoglie e mette in ordine i pochissimi dati ufficiali sulla presenza delle donne nel settore agricolo in Italia, facendo luce sul fenomeno dello sfruttamento e sulle condizioni di vita delle lavoratrici.
Lavoratori e lavoratrici: alcuni dati
I pochi dati Inps disponibili tracciano le presenze dei soli lavoratori e lavoratrici regolari, ovvero registrati al sistema di previdenza e con contratto: nel 2019 gli uomini impegnati nel settore agricolo sono stati il 69%, in aumento rispetto al 64,4% del 2014, mentre negli stessi anni le donne sono passate dal 35% al 32,1%. Questo calo potrebbe derivare dal fatto che nell’ultimo anno le donne hanno lavorato meno nel settore agricolo preferendone altri o che, nella peggiore delle ipotesi, siano passate al lavoro in nero. Negli ultimi dieci anni il tipo di contratto offerto alla maggior parte di lavoratori e lavoratrici, ovvero il 90% e il 97%, è stato quello a tempo determinato; nel 2019 le donne hanno registrato il 25% di presenze sul totale degli stranieri impegnati nel settore agricolo, una percentuale inferiore rispetto alla presenza totale nel settore operaio registrata dall’Inps (32,1%); questa potrebbe essere una conferma del fatto che una parte delle lavoratrici straniere si è spostata nell’irregolarità.
Secondo il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sono 160mila i lavoratori e le lavoratrici in condizioni di vulnerabilità e sfruttamento, mentre il Quinto Rapporto Agromafie e Caporalato della FLAI-CGIL ne segnala circa 180mila. Le modalità di sfruttamento sono tendenzialmente uguali sia per i lavoratori che le lavoratrici ma è stato osservato come la variabile di genere, in molti casi, giochi un ruolo decisivo sulla retribuzione. Secondo l’analisi in alcune zone d’Italia, in particolare nelle province di Puglia, Campania, Lazio e Sicilia, le donne vengono pagate meno rispetto agli uomini; ad esempio, nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone a Foggia le donne bulgare guadagnano tra un euro e un euro e cinquanta all’ora, talvolta anche meno, lavorando in media 20-25 ore al giorno. Al contrario, gli uomini della stessa comunità percepiscono 25-30 euro per 10-12 ore di lavoro al giorno. Da ricerche condotte nella Piana del Sele, dove una donna percepisce al massimo 28 euro al giorno e un uomo circa 40, è emerso che queste disuguaglianze sono evidenti nel lavoro da campo e meno in quello da magazzino, motivate dalla “maggiore pesantezza” del lavoro assegnato agli uomini.
Tuttavia, le condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici sembrano essere tendenzialmente simili, perché entrambi costretti ad alloggi, turni di lavoro e condizioni igienico sanitarie degradanti.
La vulnerabilità delle lavoratrici agricole
La vulnerabilità delle lavoratrici e la loro maggiore esposizione al rischio di sfruttamento sono dovute alle pressioni della struttura patriarcale che regola le società, che costringe le donne in una posizione tendenzialmente subalterna; in prospettiva intersezionale, la vulnerabilità delle donne è acuita da aspetti che riproducono ulteriori forme di discriminazioni come l’etnia e l’origine, lo status economico e sociale o di regolarità nel Paese ospitante. In alcuni casi, la necessità di realizzare, almeno in parte, il progetto di migrazione diventa motivo di ricattabilità da parte del datore di lavoro: lavorare e guadagnare è una necessità, tanto da rendere impossibile sottrarsi dallo sfruttamento. La necessità di guadagnare per il sostentamento della famiglia e il rischio di perdere lavoro e salario espongono le donne al rischio di subire violenza dai datori di lavoro, ben consapevoli di poter agire proprio su tali debolezze e necessità. Talvolta, le forme di sfruttamento si traducono in episodi di molestie, violenza, riduzione in schiavitù o costrizione alla prostituzione. La volontà e la necessità di uscire dal mondo dello sfruttamento si fa forte quando le condizioni di lavoro e violenza sono impossibili da sopportare e quando il compenso è così basso da non poter, nemmeno in parte, soddisfare il progetto alla base del percorso migratorio. Non tutte le lavoratrici sono soggette a particolari forme di sfruttamento, come tratta e riduzione in schivitù, ma nonostante l’assenza di dati sull’intero fenomeno è chiaro come questa sia una realtà sistemica e ampiamente diffusa.
Piano triennale: considerare la variabile di genere
Nel 2020 è stato approvato il Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura, istituito dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Il piano è pensato su tre diverse linee di intervento nazionale, regionale e locale: di prevenzione, vigilanza e contrasto, protezione e assistenza, reintegrazione socio lavorativa delle vittime di sfruttamento. Tuttavia, dall’analisi emerge la necessità di integrare una prospettiva di genere nel Piano triennale, che tenga conto anche e sopratutto di aspetti intersezionali che favoriscono forme di marginalizzazione e vulnerabilità per le donne. In particolare, considerare la variabile di genere come priorità strategica garantirebbe di poter agire su piani diversi e trasversali.
Giada Stallone
(8 febbraio 2022)
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