Nell’ area di uno dei due templi Sikh di Roma, il Gurdwara Sri Guru Hargobind Sahib di Massimina, si parla di domenica 21 aprile giornata della festa Vaisakhi Smagam “viene celebrata in tutto il mondo, in tutte le città dove sia possibile. Vaisakhi Smagam è come se fosse il giorno della nascita della nostra religione” racconta Navanpreet. La festa a Roma si svolgerà come sempre a Piazza Vittorio Emanuele nel quartiere Esquilino dalle 11 alle 17 e prevede diversi momenti: dalla preparazione, alla condivisione del cibo, al raccogliere i capelli nel turbante, alle preghiere dal libro sacro delle scritture, dai canti alle offerte e poi l’arrivo dei “sacerdoti”, la processione nelle vie intorno alla piazza ed infine i combattimenti che concludono i festeggiamenti. La festa celebra il battesimo dei “Panj Piare”, i cinque devoti, tenuto dal decimo e ultimo guru Gobind Singh nel 1699 dopo aver dato le regole che i credenti devono seguire: mettere il turbante, non mangiare carne etc. Da quel giorno è nata una nuova religione e noi, quest’anno la celebriamo il 21 aprile. Qui a Roma c’è anche un altro tempio a Prenestina e poi ne troviamo diversi in tutto il Lazio” spiega Navanpreet “a Viterbo, a Lavinio c’è ne sono due, ad Aprilia, a Sabaudia, a Terracina, a San Vito, Latina. Lì c’è una comunità molto grande”.
La Comunità Sikh: in Italia per un futuro migliore
Navanpreet è una giovane donna Sikh arrivata in Italia dal Punjab, una regione nel Nord Ovest dell’India non lontana da Nuova Delhi, nel 2011 con la mamma e il fratello. Il padre li aveva preceduti sette anni prima alla ricerca “di un futuro migliore.” racconta Navanpreet, “Quando ha ottenuto il permesso di soggiorno ci ha fatto venire in Italia.” Navanpreet ha frequentato per cinque anni la scuola italiana e una volta diplomata ha cominciato a lavorare con il sindacato, la CGIL “mi occupo dei braccianti agricoli”, il suo impegno è nel settore agricoltura, ma anche “sono allo sportello immigrazione, che comporta dal rinnovo dei permessi di soggiorno, al ricongiungimento familiare, a tante altre pratiche”.
La Comunità Sikh tra isolamento e integrazione
Il rapporto dei cittadini della comunità Sikh con la gente del posto, “dipende da persona a persona, per esempio ci sono dei ragazzi single che vengono dall’India, vivono sempre con altri ragazzi indiani e lavorano nei campi, poi la sera si vedono tra loro. Non tutti riescono ad integrarsi, soprattutto perché non conoscono la lingua e se lavorano nei campi non hanno grandi opportunità di parlare italiano”. Del resto chi arriva in Italia inizia con il lavorare nei campi, “dove non ha bisogno di conoscere la lingua. Vedo gente che sta qui da dieci, quindici anni e non parla e non capisce. Noi come sindacato organizziamo dei corsi,” Navanpreet spiega che anche lei si è dedicata più volte a far partire corsi di lingua “vengono la sera, in genere sono gruppi di cinque, sette ragazzi, è successo anche l’anno scorso. Lo fanno sempre per motivi di lavoro. Ma essendo impegnati fino alle sei, sette di sera, sono stanchi, non hanno molte energie per studiare e questo diventa un ostacolo all’apprendimento della lingua. Va meglio a chi lavora nei ristoranti o con il pubblico, perché ha contatti con gli italiani e riesce a imparare l’italiano”.
Man mano che imparano la lingua i giovani Sikh, prendono la patente e riescono a trovare lavori migliori, “per esempio lui adesso sta in un magazzino e fa il carrellista, parla bene l’italiano, ha la patente, riesce a comunicare con gli altri colleghi italiani” spiega Navanpreet presentando Ravisher, suo marito. Si sono conosciuti cinque anni fa e dopo un anno si sono sposati, abitano a Maccarese.
Anche Ravisher è venuto in Italia con la sua famiglia d’origine, era il 2009. Studiava e lavorava “facevo il venditore nelle bancarelle, guadagnavo 20 euro al giorno, però mi bastavano, poi piano piano ho lasciato la scuola perchè i miei genitori non avevano abbastanza denaro per mantener tutti noi, ho trovato un altro lavoro, sono cresciuto, ho imparato la lingua, e questa è una cosa fondamentale per crescere. Ho preso la patente, ho studiato, è stato impegnativo però ce l’ho fatta. Non sono mancati i sacrifici, ma poi piano piano tutte le cose sono migliorate, adesso sto lavorando in un magazzino di alimentari a Fiumicino, mi trovo molto bene. Il mio sogno sarebbe aprire un’officina meccanica: mi piace “giocare” con le chiavi e le attrezzature meccaniche fin da quando lavoravo nei campi e ho imparato a portare i trattori. Quando ho conosciuto Navanpreet, nel 2018, lavoravo in campagna, era il periodo della raccolta dei kiwi. Sono andato a un Agro Kitchen a Fondi e l’ho vista. Poi però non è stato facile trovare il suo nome. Era la prima volta che sentivo questo nome in vita mia, ma poi l’ho ritrovata su Facebook”.
“Io non l’avevo visto” racconta Navanpreet, “ma quando mi ha mandato la richiesta di amicizia l’ho accettato. Abbiamo cominciato a chattare e dopo due mesi ci siamo incontrati.”
Per le coppie che vivono in città e che hanno i figli nati in Italia che vanno a scuola è più facile integrarsi. I bambini fanno da ponte fra le comunità, “giocando insieme”.
La Comunità Sikh in fuga dal lavoro nero
Le persone lasciano l’India malgrado il benessere nel paese stia crescendo “ma la ricchezza riguarda chi ha un buon livello di vita. Con regolarità vedo persone nuove che arrivano perché nel nostro paese non riescono a guadagnare quanto vorrebbero e quindi decidono di emigrare. Molti di quelli che hanno imparato la lingua, che hanno la patente, si stanno trasferendo al Nord perché così riescono a trovare un lavoro migliore. Quindi tante famiglie che conoscevo sono andate via da Roma, stanno a Milano, a Brescia, qualcuno in Inghilterra. La maggior concentrazione di Sikh è in Lombardia e poi nel Lazio. Al Nord c’è poco lavoro nero e non si è sottopagati come qui” spiega Navanpreet, “Qui nelle campagne in estate lavorano dodici, tredici, quattordici ore, escono di casa con il buio e rientrano che fa già buio”.
La Comunità Sikh tra apparenza e sostanza
Tornando alla festa è facile notare la presenza di diversi ceti sociali. Si scorgono differenze negli abiti, nei gioielli. “Questa cosa dell’esibizione della ricchezza è vera, c’è la mentalità degli indiani di mostrare, di apparire, mettere gioielli, oro, collane, braccialetti, ma anche avere una macchina costosa, un cellulare ultimo modello. C’è chi vuole dimostrare di essere ricco, ma non tutti fanno così. Ci sono persone che prendono buoni stipendi ma non spendono tutto, mettono i soldi da parte e dopo qualche anno aprono un negozio, un ristorante. Sinceramente noi stiamo bene qui in Italia, ci piace vivere qui, ci piace il nostro lavoro”racconta Ravisher. I nostri progetti sono qui. Non è che uno debba stare per forza nel suo paese, l’importante è che uno stia bene, lavori, abbia una famiglia, si senta felice”.
Foto e testo di Alessandro Guarino
( 17 aprile 2024)
Leggi anche
Contro caporalato e agromafie più cultura della legalità e solidarietà
Coronavirus e caporalato la proposta di Marco Omizzolo
Il coraggio della speranza tutte le religioni pregano per la pace