Il carcere “discarica sociale”: vi finiscono gli ultimi, gli “scarti” della società.
La definizione è stata coniata circa vent’anni fa da un grande conoscitore delle prigioni, Alessandro Margara, magistrato, ex Direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia. Tra i molti contributi di analisi aveva anche evidenziato il nesso tra politiche migratorie e numero delle detenzioni in carcere: la legge Bossi-Fini del 2002 non solo produceva clandestinità, “anticamera del crimine”, ma aumentava anche i flussi migratori.
Nel corso degli ultimi due decenni gli ingressi in carcere sono aumentati: a marzo 2024, 61.049 unità su una capienza di 51.178; i detenuti stranieri sono il 31% del totale; di questi il 44,6% con pene inferiori a 1 anno. Il tasso di sovraffollamento è del 119,3% (Dati dal XX Rapporto dell’ass. Antigone). Ciò significa peggioramento drammatico di tutto il sistema.
E più aumenta il numero dei detenuti più le carceri diventano luoghi di violenza, non solo tra i ristretti ma anche, cosa ben più grave, da parte del personale penitenziario, come dimostrano i fatti dell’Istituto Minorile Beccaria di Milano (13 arresti di agenti penitenziari e 25 indagati (Leggi). E’ doloroso apprendere che in un’istituzione deputata alla rieducazione e al reinserimento del condannato accadano fatti denunciati dalla Procura come “sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali…..”. Per di più in un Istituto Minorile!
Come può accadere che degli agenti in divisa, dipendenti pubblici, arrivino al punto di infierire contro il più debole, anche fosse per reazione?
Il pensiero va ai numerosi studi fatti sul male nella storia (come è stato possibile Auschwitz?), nella criminalità e nei comportamenti umani in generale.
Premesso che è più facile compiere il male che il bene, perché il primo, umilmente, conosce la fragilità dell’essere umano — come scrive F. Cassano in L’umiltà del male, Laterza 2011 —, le condizioni che rendono ‘facile’ compiere il male sono:
- la creazione di un nemico, cioè la deumanizzazione della vittima;
- la de-individuazione, cioè sentirsi meno responsabili se il “compito” viene inserito in un sistema organizzato e burocratizzato;
- l’obbedienza all’autorità e il conformismo sociale.
Questo non vuol dire che non sia possibile sottrarsi a questi meccanismi, infatti anche nei Lager nazisti c’è chi si è rifiutato di usare violenza contro un altro internato, come documenta Tzvetan Todorov in Di fronte all’estremo, Garzanti 2011: “A far luce sulla nostra comune condizione è l’insegnamento che si ricava da situazioni estreme…. Le azioni morali compiute nei Lager non sono dettate da un istinto animale ma sono gesti volontari”, quindi liberamente scelti in base a un criterio, “a un ideale che si può difendere razionalmente e che tutti possono condividere”.
Il carcere è un “luogo estremo” e in ombra; senza ancoraggi a una cultura, a dei principi morali e senza adeguata formazione è facile che si trasformi in un luogo di illegalità e di violenza.
Ciò di cui oggi si sente la mancanza è l’appartenenza a una comune cultura democratica che metta il rispetto della persona al di sopra di ogni altro interesse e che educhi alla responsabilità.
Luciana Scarcia
(24 aprile 2024)