Astalli formazione: migrazioni e cambiamento climatico

“La transizione dell’Europa tra migrazioni e cambiamento climatico” è il terzo ed ultimo incontro di formazione promosso dal Centro Astalli di Roma, che si è tenuto il 21 maggio 2024 presso la Pontificia Università Gregoriana. “Nei due incontri precedenti abbiamo visto come un’Europa securitaria e succube dei nazionalismi possa arrivare a sacrificare la crisi migratoria e quella ambientale sull’altare dei giochi elettorali, speculando sulle paure dei cittadini”. Con queste parole, Chiara Tintori, saggista e politologa, ha aperto l’evento. “Nell’incontro di oggi partiamo da un dato di fatto: il legame che esiste tra migrazione e clima, perché il grido della terra e il grido dei poveri sono due facce della stessa medaglia”.
In questo terzo incontro si è cercato di capire il rapporto tra cambiamenti climatici e migrazioni. Il punto di partenza è la consapevolezza che ogni scelta ed ogni azione politica producano conseguenze e richiamino ad una responsabilità condivisa, che deve prescindere da ogni contrapposizione ideologica se vuole avere come unico obiettivo la tutela del genere umano e della nostra “casa comune”.

Migrazioni e cambiamento climatico: i numeri

Entro il 2030, tra poco meno di sei anni, circa 2 miliardi di persone saranno esposti a condizioni invivibili a causa del cambiamento climatico. Sono abitanti di paesi che non hanno direttamente contribuito all’inquinamento ma che ne subiscono quotidianamente le conseguenze, territori già depredati delle materie prime che hanno e continuano ad alimentare le economie dei Paesi industrializzati responsabili delle attuali condizioni del pianeta, persone che saranno costrette a migrare o condannate a restare, se prive di mezzi o di alternative.
“Se la migrazione è un’antica modalità di adattamento da parte dell’essere umano, nell’era moderna ha assunto caratteristiche complesse che coinvolgono aspetti sociali, economici, demografici e ambientali, dove tutti i continenti sono coinvolti in quella che si potrebbe definire una migrazione di massa, che rappresenta il volto umano della globalizzazione”. Inizia così l’intervento di Paolo Conversi, docente del corso “I fondamenti dell’ecologia integrale: aspetti etico-religiosi e antropologico-filosofici” presso la Facoltà di Scienze Sociali della stessa università, che ha analizzato caratteristiche e criticità dell’attuale migrazione climatica.
“Secondo il World Migration Report del 2022, dal 2000 al 2020 si è passati da 174 milioni di migranti internazionali a 282 milioni; di questi, oltre 3,6 miliardi vivono in aree vulnerabili al cambiamento climatico, che è diventata la causa sempre più determinante di questa migrazione forzata”. Conversi ricorda che la crisi climatica non è una minaccia futura, ma una realtà del presente: quello che potrebbe sembrare un innocuo innalzamento della temperatura di poco superiore a 1° rispetto all’epoca preindustriale, sta già causando immense sofferenze agli uomini e all’ecosistema e minaccia i diritti umani fondamentali quali il diritto alla vita, alla salute, alla sicurezza alimentare ed idrica.

Migrazioni e cambiamento climatico: chi sono i migranti climatici?

Ad essere colpite in maniera sproporzionata dagli effetti della crisi climatica sono le comunità più povere e vulnerabili del pianeta. Sono anche quelle innocenti, che non hanno causato direttamente il problema, spesso già colpite da conflitti e persecuzioni razziali, culturali e politiche, generate dalla crisi climatica per il controllo di risorse sempre più scarse.
“Non è quindi possibile attribuire alla sola motivazione climatica la necessità di migrare, visto che interagiscono altri fattori, di tipo socioeconomico, politico e demografico. Per lo stesso motivo è difficile stimare con precisione i numeri, ma la Banca Mondiale ha considerato che, se entro il 2050 non verranno adottate misure efficaci, gli sfollati climatici interni potrebbero arrivare a circa 216 milioni”. È però possibile prevedere quali saranno le regioni maggiormente colpite, perché sono quelle già interessate dai disastri improvvisi e prolungati dovuti all’aumento della temperatura: “sono le regioni pluviali altamente popolate, come il delta del Gange, del Mekong, del Nilo, il Bangladesh in particolare, i paesi del Sahel africano, tutte le regioni costiere ed in particolare i Paesi Centro Americani, particolarmente vulnerabili agli uragani”.
A questo proposito, è necessario distinguere due diversi tipi di migrazione. La prima si manifesta quando sono presenti fenomeni a rapida insorgenza, come incendi, cicloni, alluvioni violente e in questo caso di parla di disaster migration. Quando invece i cambiamenti climatici sono a lenta insorgenza, in seguito all’aumento delle temperature, che portano l’innalzamento del livello del mare, l’erosione del suolo e la carenza di coltivazioni, la desertificazione e la diminuzione dei bacini d’acqua dolce, allora si deve parlare di strategic migration. “A queste va aggiunta una terza situazione, quella delle trapped population, che si riferisce alle persone che non possono muoversi perché non hanno risorse che permettano la migrazione e sono costrette a rimanere”.

Rifugiato climatico senza legislazione

Un’altra grande problematica legata alla migrazione climatica è la mancanza di una legislazione internazionale e di una definizione chiara e condivisa per “rifugiato climatico”.
“La legislazione internazionale è molto limitata e frammentaria e non sempre legalmente vincolante. Il rifugiato climatico non esiste, perché non solo non c’è ancora alcuna norma del diritto internazionale che lo definisca, ma non è più riconoscibile nella definizione di rifugiato (art.1) della Convenzione di Ginevra del 1951”.

Il diritto a migrare e il diritto a non migrare

Il fatto che le persone siano costrette a migrare perché l’ambiente in cui vivono non è più abitabile potrebbe sembrare un processo naturale inevitabile, ma molto spesso è invece il risultato di scelte sbagliate pregresse, di cui sono responsabili i paesi industrializzati e la rivoluzione industriale.
Vista in questa prospettiva, i paesi che maggiormente subiscono le conseguenze di una crisi che non hanno direttamente prodotto e che non hanno mai veramente beneficiato dei vantaggi portati dal progresso, sono da considerarsi come creditori e gli sfollati climatici come vittime a cui devono essere garantiti diritti, protezione e assistenza e ai quali va riconosciuto il fondamentale diritto a migrare.
Ma oltre al diritto ad migrare, c’è anche il diritto a non migrare. Se l’accoglienza, la protezione, la promozione e l’integrazione del migrante richiedono azioni concrete ed una sensibilizzazione dei governi e dell’opinione pubblica, per soddisfare non solo i bisogni primari ma per promuovere la piena realizzazione degli individui, il diritto a non migrare richiede politiche di investimento e sviluppo nei paesi colpiti, che hanno meno risorse economiche e tecniche per poter affrontare autonomamente le conseguenze della crisi climatica: “bisogna investire in azioni di adattamento e di resilienza, attraverso attività di mappatura dei territori a rischio, attività di sviluppo locale, nella sicurezza alimentare ed idrica, nell’agricoltura, nell’energia pulita”.
Per poterlo fare c’è però bisogno di un approccio diverso, di un approccio integrato.

Migrazioni e cambiamento climatico: approccio integrato

I diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’agenda 2023 (SDGs, Sustainable Development Goals),  concordati nel 2015 da tutti i 193 Stati membri delle Nazioni Unite (ONU), per la prima volta denunciano l’insostenibilità dell’attuale sviluppo globale, non solo sul piano ambientale ma anche su quello economico e sociale.
“Rispondere alla crisi climatica necessita di cooperazione internazionale e integrata dove agiscano non solo i Governi, ma anche la comunità scientifica, il settore privato, la cooperazione internazionale e la società civile”, sottolinea Luca Cinciripini, ricercatore nel programma “Ue, politica e istituzioni” e Nexus 25 dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) e secondo relatore dell’incontro.
“Come IAI cerchiamo non solo di inquadrare il problema ma cercare di trovare risposte a livello multilaterale. Con Nexus 25.org vogliamo promuovere un nuovo dibattito integrato, dove vengano ascoltati gli attori regionali e locali sulle urgenze, le priorità ed i bisogni dei loro territori e poi farli dialogare con quelli europei e statunitensi, per uscire da una logica assistenziale ed emergenziale, che li ha sempre solo riconosciuti come contesti in grave disagio ai quali deve essere somministrato un aiuto”.

Africa emblematica per energia, terrorismo e risorse

In questa prospettiva, l’Africa rappresenta un banco di prova, una fucina di scenari futuri ed un territorio fertile sul quale investire nel nuovo approccio.
Per quanto riguarda il settore energetico, per esempio. “Veniamo da 5 anni nei quali l’Europa è stata un capofila rispetto alla transizione ecologica ma al tempo stesso 600 milioni di persone nella sola Africa subsahariana non hanno accesso all’energia elettrica, 3,7 milioni di decessi all’anno che colpiscono principalmente donne e bambini per mancanza di accesso all’energia per cucinare. L’Africa, che ospita il 20% della popolazione mondiale, si trova con meno del 2% della spesa stanziata per l’energia pulita e con meno del 3% di posti di lavoro in questo settore. E parliamo di un continente che ha tutte le risorse naturali o energetiche per poter invertire questa tendenza”.
In Africa, infatti, vengono estratte quasi tutte le materie prime necessarie alla transizione ecologica, basti pensare alla sola Repubblica Democratica del Congo che produce il 70% del cobalto e del coltan usato a livello globale. Se non possono essere estratte ad impatto 0, sicuramente è possibile farlo in modo meno devastante se si investe sulla sicurezza e sulla distribuzione più equa dei benefici, “in una prospettiva non colonialista, in grado di vedere Africa ed Unione Europea come due soggetti alla pari. Il continente africano non deve più essere visto come un enorme territorio estrattivo ma come un territorio che deve poter guadagnare dalle sue stesse risorse”.
Cinciripini ricorda poi che, in contesti nei quali le risorse naturali scarseggiano fino quasi ad azzerarsi e le istituzioni locali sono assenti o incapaci di affrontare determinate sfide, si possono aprire spiragli al terrorismo, che in alcuni contesti può diventare il principale datore di lavoro per popolazioni senza altre prospettive. “Due termini che sembrano fortemente scollegati, come clima e terrorismo, non lo sono, e ancora si torna al concetto di climate security e di crisi climatica come moltiplicatore di rischio, un tema fondamentale perché la prossima legislatura europea sarà fortemente orientata su questi temi di sicurezza e difesa”.
Ancora una volta, la necessità di un approccio integrato e di ampio sguardo, perché tutto è interconnesso.

Migrazioni e cambiamento climatico: cambiare narrazione

È necessario cambiare narrazione e affrontare un dato di realtà: non si può più parlare di cambiamento climatico ma di crisi climatica, perché parlare di cambiamento attenua la percezione degli effetti devastanti del fenomeno. “Dobbiamo però ricordarci che queste sfide dal punto di vista elettorale non pagano, e che i sondaggi danno per favoriti i partiti più scettici se non ostili verso queste tematiche che devono essere affrontate da una prospettiva nuova ed integrata o sarà sempre più difficile trovare soluzioni”.
Tutto questo richiede una narrativa nuova che necessita di un cambiamento di sguardo, una conversione ecologica integrata basata su interdipendenza e inter responsabilità, perché solo un approccio coordinato potrà trasformare la crisi climatica anche in un’opportunità; come disse Winston Churchill Never waste a good crisis” Non sprecare mai una crisi utile.

Natascia Accatino
(27 maggio 2024)

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