Svamini Shuddhananda vive nel Matha Gitananda Ashram (monastero induista), ad Altare in provincia di Savona. Il monastero, fondato nel 1984, si trova nei boschi dell’Appenino ed è il più importante d’Europa. C’è un prima e un dopo nella vita di Shuddahananda, il suo punto di svolta è stato quando nel 2000, a 20 anni è arrivata all’Ashram. L’incontro con la religione induista è stato come un colpo di fulmine per Shuddhananda, “Avevo 16 anni quando ho cominciato a frequentare un corso yoga. A 20 anni sono entrata nell’ Ashram e, dopo 9 anni, nel 2009, ho preso i voti per diventare monaca”.
Svamini ovvero colei che conosce il suo sé
Cosa significa Svamini Shuddhananda Ghiri?
“Shuddha significa purezza, è il nome che ho ricevuto quando ho preso i voti per diventare monaca; Ahananda significa gioia, beatitudine e compone tutti i nomi delle monache e dei monaci. Ghiri è uno dei 10 ordini monastici ortodossi attivi nella religione induista ed indica “montagna”. Svamini può essere tradotto in italiano con monaca ma in realtà nell’induismo ha un significato molto più articolato, è colui o colei che è conosce il suo sé”.
Il percorso di Shuddhananda è stato veloce, una rivoluzione naturale, simile a quello che lei stessa definisce un “innamoramento irrazionale” per la religione induista. Ancora studentessa universitaria, nata e vissuta a Roma, ha deciso di entrare nell’Ashram di Savona.
“Sì, il percorso è iniziato nel Monastero di Altare ed è lì che ancora divido le giornate con i miei fratelli e sorelle. Mi è sembrata da subito la scelta migliore che potessi fare. In famiglia si parlava di religioni orientali e la mia migliore amica era indiana. Lasciare Roma e la vita da studentessa e figlia non è stata una frattura, piuttosto una trasformazione, una maturazione. Il rapporto con i miei genitori è più maturo perché ora li vedo come persone”
La ricerca della verità, un percorso infinito
Come hanno reagito i tuoi, all’inizio? Eri molto giovane.
“C’è stato uno smottamento iniziale, è normale, ma i miei hanno accettato la mia scelta, soprattutto perché mi hanno vista felice. Ho rispettato un anno in isolamento, come previsto da tutti gli ordini monastici, è stata una decisione importante, si celebra il proprio funerale e l’inizio della nuova vita monastica, da allora sono Svamini Shuddha. Molti pensano al rischio di plagio ma non è così: l’induismo è una religione che non fa proselitismo, anzi stimola la riflessione e l’autoanalisi, chi si converte lo fa per convinzione personale”.
Eppure, devi avere avuto una motivazione molto forte, cosa o chi ti ha spinto a fare questa scelta?
“Se intendi che cercavo di fuggire o che la mia vita non mi piaceva rispondo, no; avevo le mie amicizie, ho fatto le mie esperienze, la mia non è stata una fuga. Piuttosto, c’è stata una forte determinazione a cercare il senso della vita. L’induismo non è dogmatico ma predilige l’esperienza diretta del singolo, la ricerca della verità è un percorso infinito”
Come ti chiamavi prima, il tuo nome prima di entrare nell’Ashram?
Shuddha sorride dolcemente, molti hanno fatto la stessa domanda, “Non è che non voglio rispondere, è che ora sono Shuddhananda e non ha senso sapere come mi chiamassi”.
Prima di entrare nell’Ashram, S. si era iscritta all’Università La Sapienza di Roma, Facoltà di Lingua e Civiltà Orientali. Ha terminato gli studi dopo essere entrata nel Monastero.
Il senso delle origini e dell’identità
Le monache induiste italiane non sono uguali alle monache induiste indiane. Che significa per te il termine identità? Le tue origini determinano in qualche modo anche il tuo essere monaca?
“L’induismo è una religione antichissima ma sa plasmarsi al mutare della situazione e dei tempi mantenendo intatto il suo nucleo centrale. Ad esempio, molti professionisti indiani sono emigrati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e sono perfettamente integrati nel mondo del lavoro pur mantenendo vive, all’interno delle loro famiglie, le tradizioni induiste. Nessuno dimentica le proprie origini, io mi sento italiana – anzi romana – ma come monaca cerco l’identità con Dio. Il termine identità di per sé è un termine scivoloso perché si riferisce a qualcosa che devi difendere. Vediamo quante guerre di fanno in nome dell’identità di un popolo? Nelle scritture induiste si parla di Varna, il colore, e non sta ad indicare la nascita ma la libertà di ognuno di seguire il suo talento, di svolgere la professione per cui è portato”.
Il Varna e il percorso per arrivare all’assoluto
Si può parlare di armonia sociale in India? Un Paese che ha appunto diviso la società in caste?
“Tutte le religioni nascono in un certo modo ma poi vengono manipolate, reinterpretate. Anche quella induista è stata revisionata ad uso e consumo di alcuni. Al suo interno ci sono stati riformatori che si sono opposti alle caste, la divisione in caste è una questione prettamente sociale ma non religiosa”.
Induismo e buddismo sono due religioni che hanno le stesse radici, parlano di karma e di responsabilità individuali, si basano sul principio di causa ed effetto. Secondo te cosa porta una persona a scegliere una religione piuttosto che un’altra?
Shuddhananda sorride, dopo 24 anni è inutile spiegare la sua scelta ma non si sottrae alla risposta, “È come quando ti innamori, all’inizio non è una scelta razionale. È solo in una fase successiva che la tua scelta prende forma. Per me è stato il senso di sacralità e di libertà dell’induismo. La Verità o il Dio delle altre religioni non è diverso dalla concezione di assoluto induista. Dio è verità e non è duale, è oltre la dualità del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, è ciò che non muta. Ognuno sceglie il suo percorso, immaginiamo una montagna, tutti partiamo dai piedi della montagna però quando arriviamo alla vetta, il paesaggio che vedi è lo stesso”.
Livia Gorini
(28 novembre 2024)
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