Non dimenticare le morti dei migranti: per umanità e per resistere allo sconforto di un mondo incattivito che vive la crisi delle istituzioni democratiche.

Questo è il senso che la giornalista Mariangela Paone ha dato alla sua professione, oltre al compito deontologico di informare e fornire dati e strumenti di conoscenza della realtà.
Dopo la pubblicazione dì Sospesa. Una vita nella trappola dell’Europa, che ha scritto per ricostruire la storia di una giovane profuga afghana, ecco una riflessione sul suo lavoro, le migrazioni, l’Europa.
Il libro colpisce per la storia che racconta, ma anche per l’impegno e la passione con cui lei ha accompagnato la ragazza afghana nella ricerca dei familiari scomparsi. Perché lo ha scritto?
Dieci anni fa avevo raccontato la storia di Rezwana, che era l’unica sopravvissuta della sua famiglia al naufragio avvenuto al largo dell’isola di Lesbo il 28 ottobre del 2015. Da allora, avevo continuato a chiedere di lei. Quando ho saputo nel dicembre del 2019 che la deportavano di nuovo in Grecia dalla Svezia, dove era riuscita ad arrivare per stare con una prozia e la sua famiglia, decisi di raccontare la sua vicenda perché era rappresentativa di tutte le falle del sistema asilo europeo. Ma quando ci siamo incontrate per la prima volta di persona, nel 2021, Rezwana mi ha detto che da 6 anni ancora non era riuscita ad avere notizie della sua famiglia. E a quel punto è iniziata una missione che sembrava impossibile, ma che poi, grazie all’aiuto di tante persone, si è conclusa con il ritrovamento delle tombe della madre e di una delle sue sorelle.
Lei però resta tuttora in Grecia, in attesa di ottenere la residenza permanente e una libertà di movimento che ora non ha.
La mancanza di un corpo da seppellire, bruciare, visitare che conseguenze ha sulla vita di chi resta?
Chi resta rimane in uno stato di sospensione emotiva, una non-vita. Gli esperti la chiamano “la perdita ambigua”. Immaginiamolo questo tempo in attesa di sapere se i propri cari sono sani e salvi; immaginiamo come si può sentire una madre in Siria o Afghanistan che aspetta notizie di suo figlio, notizie che non arrivano. Ci si aggrappa fino all’ultimo alla speranza, anche dopo la notizia di un naufragio: magari lui ce l’ha fatta… è riuscito a salvarsi… E poi la speranza dopo anni si affievolisce e subentra la disperazione.
Mi chiedo: perché i sentimenti dei familiari, il rispetto, la sacralità del corpo del morto non devono valere per tutti indistintamente; giustamente si investono tempo e risorse per ritrovare i dispersi di un’alluvione, come quella a Valencia dello scorso ottobre, o di una spedizione in montagna, e perché non si sente la stessa doverosa urgenza per i migranti?
In questo periodo di annebbiamento del valore della solidarietà in Europa che prospettive vede per i migranti?
C’è un clima di “cattivismo”, in cui l’altro, percepito come diverso da noi, è visto come un nemico della società. E si criminalizza la solidarietà.
Dal 2015 a oggi, abbiano assistito a una erosione progressiva del diritto di asilo in Europa, senza che ci si renda conto che una volta che si inizia a smantellare un diritto poi si apre la porta a che anche altri vengano erosi.
Eppure, come persona e come professionista, sono convinta che non bisogna cedere allo sconforto e allo sbalordimento di fronte, per esempio, al bombardamento mediatico su quello che sta accadendo. La prima forma di resistenza è fare rete con le persone e sostenere quei soggetti che operano per salvare vite umane e per integrare. Ma ci si deve anche sottrarre alla tentazione di chiudersi in cerchi autoreferenziali per sentirsi meno soli. Bisogna invece seminare resistenza, difendendo tutti gli spazi di confronto e contatto umano.
Bisogna, insomma, riprendere l’abitudine al confronto, anche in un momento in cui in tv c’è qualcuno che abbaia per coprire l’altro.
Luciana Scarcia
01 marzo 2025
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