La famiglia. È questo il pilastro su cui si fonda la comunità marocchina in Italia per Abdessamad El Jaouzi, ricercatore indipendente che ha curato diverse pubblicazioni sul tema per la Fondazione Migrantes, 39 anni, nato in Marocco e cittadino italiano dal 2009, “in Italia da sempre ” per usare le sue stesse parole.La necessità di ricostruire il nucleo familiare è un fattore che accomuna italiani e marocchini che lasciano i loro paesi di origine: “è come se prendessi uno specchio: quello che succede per la comunità italiana, o di altri paesi mediterranei, succede anche per quella marocchina in Italia o all’estero. Una similitudine che ho avuto modo di costatare nei diversi studi che ho portato avanti sulla presenza degli italiani negli altri paesi”, spiega Abdessamad.I marocchini sono arrivati in Italia per restare e non per partire ancora. E hanno ricostruito in Italia la famiglia, un atomo di società che permette di preservare tre capisaldi del paese di origine: “conservare la tradizione culinaria, onorare le feste religiose, parlare la lingua di origine: trasmettere gli elementi che ti ricordano il paese di origine che non devono, però, collidere con la società in cui vivi. Proprio come è successo per gli italiani all’estero”.Lo confermano i dati, sono arrivati prima gli uomini a partire dagli anni 70 per lavorare, poi sono arrivate le donne per ricostruire in altra terra il nucleo originario.
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Naji Abderrahim, una voce dell’imprenditoria nella comunità marocchina
Naji Abderrahim è il protagonista di una storia di successo che documenta la capacità di tanti marocchini che in Italia sono riusciti a costruire un percorso professionale ricco di traguardi e soddisfazioni: in Marocco, Naji, iscritto all’Università di Fisica e Chimica a Marrakesch, è costretto a lasciare gli studi per problemi economici in famiglia. Da qui la scelta del distacco dal proprio paese e dai propri affetti per emigrare in Francia, nella speranza di proseguire e concludere i suoi studi. “Ma i costi per l’università erano insostenibili, e non ho potuto far altro che cercare lavoro” racconta.Dopo diversi spostamenti tra Germania, Belgio, Olanda, e Paesi scandinavi, Naji si arrangia come può con lavori saltuari, e nel 1990 arriva in Italia, all’epoca della sanatoria che regolarizza il permesso di soggiorno agli immigrati. Trova lavoro nel padovano come muratore per un’impresa edile in un bowling. Dopo poche settimane, conosce un po’ per caso il titolare della CS Stampi, che decide subito di assumerlo come dipendente: “Il mio ingresso è avvenuto in modo semplice. Mi sono state date tutte le spiegazioni tecniche necessarie per l’uso dei macchinari, e la collaborazione con gli altri tre colleghi è stata subito facile”. Naji acquisirà l’impresa nel 1997, e nel 2000 stabilirà definitivamente la sede centrale a Piazzola sul Brenta.La capacità e lo spirito imprenditoriale di Naji vengono premiate e nel 2015 i MoneyGram Awards gli conferiscono il titolo di imprenditore dell’anno.

L’Italia “nel destino” di Aziz Darif
Per Aziz Darif il distacco dal Marocco e l’arrivo in Italia sono stati l’avvio di una grande avventura, “di un destino che era scritto”, eppure all’inizio neanche lontanamente immaginabile: “sono originario di Fez, lì c’era tutta la mia quotidianità di giovane studente universitario iscritto alla Facoltà di Lingua e Letteratura Francese, che si divertiva a giocare a calcio coi suoi amici”.Aziz è giovanissimo quando arriva in Italia nel 1991 con un gruppo di artigiani coinvolti nella costruzione della Grande Moschea di Roma. “Non avevo mai fatto l’artigiano nel mio Paese, ma quando questo mio amico mi ha invitato a fare questa esperienza, mi sono buttato e ho imparato a lavorare il gesso, partecipando con grande orgoglio a questa missione. Quei tempi sono stati bellissimi: mi ricordo che continuavo ad allenarmi a calcio a Villa Ada, poi via, si ritornava al cantiere. Quando la missione è finita, non ce l’ho fatta a lasciare Roma e ho deciso di restare”.Aziz diventa così intermediario per il Centro Islamico, si occupa della mediazione per gli architetti, gli ingegneri e i geometri coinvolti nella costruzione della moschea. Nel 1996 ottiene il permesso di soggiorno: il lavoro, inizialmente temporaneo, diventa stabile fino al 2015. Dal 2009 al 2013 è presidente della consulta cittadina delle comunità straniere del comune di Roma.

Comunità marocchina in Italia: un lungo percorso
Così come la storia del singolo è fatta di distacco, speranza e cambiamento. Anche l’intera comunità ha vissuto un’evoluzione composta da fasi diverse. E dopo 40 anni la comunità marocchina in Italia è stratificata: necessariamente i più anziani guardano al passato e alle tradizioni, la generazione di mezzo continua ad essere a metà tra passato e presente, tra luogo di origine e di destinazione con la difficoltà di superare le differenze, i più giovani cercano di oltrepassare i confini delle differenza e di farsi promotori della comunità, immaginandola sempre più come una parte integrante della società in cui è immersa.Oggi c’è una terza generazione che vive qui in Italia a cui non devi mai chiedere “ti senti più italiano o marocchino”, spiega Abdessamad Eljaouzi. Sarebbe riduttivo. La terza è la generazione dell’evoluzione: chi nasce e cresce in Italia non rappresenta più il distacco della partenza o la speranza di una nuova costruzione, ma è la prova tangibile del cambiamento.Si tratta di una stratificazione che è rintracciabile anche nel modo di fare associazionismo: se i più adulti si impegnano per la promozione della cultura d’origine, i più giovani si impegnano per costruire una commistione completa tra tradizione e innovazione. Ma è un panorama variegato, “ci sono anche diverse organizzazioni sindacali e tante che si fanno portatrici di istanze che sono frutto dell’evoluzione della presenza della comunità in Italia: come le questioni legate alle sepolture”, dice Abdessamad.Quello delle associazioni marocchine in Italia è un panorama vasto e frastagliato in cui non è semplice districarsi, ma sicuramente molto ricco: “i marocchini si portano dietro l’associazionismo dal paese di origine”.”Da uno studio a cui avevo contribuito risultavano in Italia più di 800 associazioni“, dice Abdessamad. Ma sul tema non ci sono dati certi, anche perché risulta molto difficile distinguere tra le realtà attive e quelle che sono state solo una meteora, sicuramente il gran numero di organizzazioni, al di là della lunghezza della loro vita, dimostra che i marocchini in Italia costituiscono una comunità che non è fatta solo di numeri, ma anche di idee e di legami forti con la società in cui si trovano. “Ricordiamoci che le associazioni nascono in Italia e hanno uno statuto in linea con la Costituzione italiana”.A Roma sono attive diverse associazioni che si impegnano per le donne, ACMID o donne e diritto, solo per fare qualche esempio. E lo stesso Abdessamad è portatore di un’esperienza diretta nel campo: in qualità di presidente dell’Associazione Cantiere dei Giovani Italo Marocchini porta avanti quella idea di evoluzione, culturale, scientifica, di competenze, che dà il senso di maturità della comunità in Italia, rappresentata in particolar modo dalla terza generazione, e che in un certo senso supera i suoi confini. “Non siamo semplicemente un’associazione di marocchini”, tiene a sottolineare.”Abbiamo messo in campo negli anni iniziative open, un po’ come si intendono i software open source, secondo modelli che potessero essere riprodotti e arricchiti anche altrove”. Da un corso di comunicazione interculturale per italiani e stranieri in collaborazione con l’università La Sapienza all’esperienza di “Mamma torna a scuola con me“
Comunità marocchina in Italia tra scuola e associazionismo
Un programma di insegnamento, di inserimento sociale e culturale e allo stesso tempo di valorizzazione della cultura d’origine che sintetizza al meglio le necessità senza tempo che caratterizzano ancora una parte della comunità e l’approccio nuovo di cui c’è bisogno.Su una lavagna l’arabo, su un’altra l’italiano. Da un lato i bambini, dall’altro le mamme: l’iniziativa durata 5 edizioni “è stato un progetto di società: abbiamo parlato direttamente con i mariti delle donne partecipanti, coinvolto la scuola per la parte istituzionale, con la parte religiosa, abbiamo inserito un programma di educazione civica perché si acquisissero determinati diritti e responsabilità, partendo dalla relazione con i loro figli e fino ad arrivare all’inserimento lavorativo”.

Betta Rossi e Rosy D’Elia(15 aprile 2020)
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