Al Consiglio Europeo del 9 febbraio a Bruxelles si è tornato a parlare di migranti. L’incontro ha aperto alla possibilità di protezioni fisiche ai confini esterni dell’UE, rimandata invece a marzo la discussione sulle frontiere marittime. Le decisioni del vertice, accolte con favore dal governo italiano, seguono di pochi giorni la condanna europea al decreto Piantedosi, fortemente restrittivo nei confronti dei salvataggi in mare. Qual è dunque la posizione europea in materia di immigrazione? Quanta differenza passa effettivamente tra le posizioni europee e quelle italiane?
Consiglio europeo: misure urgenti per frenare i migranti
In UE sembra farsi spazio come mai prima la linea fortemente anti-migranti voluta dai paesi dell’Europa dell’Est, fino a qualche tempo fa rappresentata dal cosiddetto Gruppo di Visegrád – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia – cui si è unita nel tempo una sempre più intransigente Austria. Le richieste di un drastico rafforzamento della protezione dei confini terrestri orientali, anticipato più di un decennio fa dal filo spinato del premier ungherese Orbán, sembrano trovare oggi una certa accoglienza presso Paesi tendenzialmente meno drastici riguardo alle soluzioni per tentare di governare la pressione migratoria.
È lecito ipotizzare, visto il protrarsi del conflitto in Ucraina e della conseguente pressione di profughi proprio in questi Paesi, che gli altri Stati membri si siano mostrati più disponibili ad accogliere le loro proposte. Beninteso, sempre sulla pelle dei migranti-immigrati, quelli sgraditi perché provenienti da Africa, Medio-Oriente e Asia.
Nel documento conclusivo dei lavori, punto 23.e, si legge infatti:
[Il Consiglio europeo] chiede alla Commissione di mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’UE per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza — compresa la sorveglianza aerea — e delle attrezzature…
L’apparentemente innocuo riferimento alle “infrastrutture di protezione delle frontiere”, lascia in realtà spazio alle più disparate interpretazioni. Posto che le frontiere dell’UE sono già sorvegliate militarmente, un potenziamento delle infrastrutture porta senza dubbio nella direzione della realizzazione di barriere fisiche. Una proposta di forte impatto, sia sul piano pratico che su quello simbolico.
La svolta che non c’è stata
La premier italiana Meloni ha festeggiato i risultati del Consiglio europeo, parlando di una “grande vittoria per l’Italia” e lasciando prefigurare un vero e proprio cambio di rotta in direzione di una maggiore collaborazione europea in tema immigrazione. Sul fronte interno si continua sempre più convintamente sulla linea Piantedosi: il decreto legge, ribattezzato dalla stampa “decreto anti-Ong”, è in questi giorni all’analisi delle Camere per la riconversione in legge entro il termine del 3 marzo.
A ben guardare, tuttavia, le conclusioni tratte dal Consiglio europeo mirano a incrementare e potenziare soluzioni, strategie e strumenti già in atto:
- controllo delle frontiere esterne, attraverso il potenziamento di Frontex;
- facilitare e coordinare le operazioni di rimpatrio e riammissione;
- potenziare l’azione esterna dell’UE, attraverso accordi con i Paesi di origine e di transito secondo la strategia di esternalizzazione delle frontiere (come nel caso della Turchia);
- proseguire nella linea tracciato dal Patto sulla migrazione e l’asilo;
- incrementare il monitoraggio dei dati relativi all’immigrazione;
- lotta al traffico di esseri umani.
Per quanto riguarda le frontiere marittime, il Consiglio europeo riconosce la specificità della questione e rimanda la discussione a marzo (punto 23.f):
[Il Consiglio europeo] riconosce le specificità delle frontiere marittime, anche per quanto riguarda la salvaguardia delle vite umane, e sottolinea la necessità di una cooperazione rafforzata in ordine alle attività di ricerca e soccorso e, in tale contesto, prende atto del rilancio del gruppo di contatto europeo in materia di ricerca e soccorso.
Sempre a marzo su richiesta della Svezia, in occasione della prossima sessione del Consiglio “Giustizia e affari interni”, è rimandata la discussione sulla riforma del Regolamento di Dublino. L’ultimo valido tentativo di procedere alla riforma del Regolamento responsabile, tra le altre cose, di vincolare il migrante a stanziarsi nel Paese di primo ingresso risale al 2016: votato dal Parlamento europeo, è rimasto bloccato in sede di Commissione europea, organo espressione della volontà dei singoli Stati membri. Che siano gli stessi Stati membri a chiedere la riforma del Regolamento di Dublino, nel clima attuale che abbiamo descritto, non lascia presagire nulla di buono.
UE: obiezione di metodo e non di merito alla linea italiana
L’impressione, in conclusione, è che le obiezioni mosse dall’UE al nostro Paese non mirino tanto a contrastare nel merito la ratio delle politiche italiane in tema immigrazione: l’Unione, infatti, non intende proporre una linea differente e una gestione meno emergenziale e più umana delle migrazioni. Quello che viene contestato, piuttosto, è il metodo: l’immigrazione è una questione europea, che va affrontata in maniera congiunta dai vari Paesi membri – il documento conclusivo parla esplicitamente di “una sfida europea che richiede una risposta europea”. Da qui le proteste nei confronti delle iniziative italiane, cui di fatto in sede di discussione europea non si oppongono mai visioni o proposte contrastanti, ma soluzioni di diverse gradazioni, differenti nelle modalità di attuazione ma pienamente convergenti nello scopo.
Silvia Proietti
(15 febbraio 2023)
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