Il 2024 sarà ricordato come “the election year” perché, a giugno, 4 miliardi di cittadini europei saranno chiamati alle urne per l’elezione del Parlamento Europeo. Oltre il 40% della popolazione mondiale esprimerà un voto che, al pari di quello per le presidenziali negli Stati Uniti, sarà determinante non solo per i futuri equilibri ed assetti politici, economici e sociali degli stati membri, ma che avrà un impatto diretto ed indiretto sugli equilibri mondiali e sul futuro dei paesi più fragili, soprattutto africani, quotidianamente indeboliti dalla crisi climatica e dai processi migratori e da sempre depredati di libertà, risorse, uomini e futuro.
Emerge, alla vigilia del voto, un’Europa profondamente in crisi, dove i crescenti nazionalismi tradiscono i valori dei padri fondatori, dove democrazia, pace, uguaglianza ed integrazione sembrano venire meno, dove muri e barriere, reali ed elettroniche, disegnano un continente sempre più determinato a chiudersi nel tentativo di proteggersi.
Con queste premesse si è tenuto, il 14 maggio, “La rotta dell’Europa: direzione zero asilo. Sfide e scenari della politica europea sulle migrazioni” il secondo dei tre incontri di formazione organizzato dal Centro Astalli di Roma, in collaborazione con la Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana. Angela Mauro, giornalista e corrispondente da Bruxelles per Huffington Post, Federico Niglia, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali e docente di Storia delle Relazioni Internazionali ed Emanuele Bobbio, fondatore ed autore presso Lo Spiegone, in qualità di moderatore, hanno cercato di analizzare la delicata situazione politica e sociale europea alla vigilia del voto.
Europa: immigrazione come capro espiatorio?
“Nel primo incontro di formazione, siamo tornati a quel sogno europeo nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale che, dal rispetto della dignità umana, presente in molte carte costituzionali, si avviava verso un futuro che sperava prospero, come poi effettivamente è stato”, ricorda Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, che ha aperto l’incontro. “Oggi però, alle porte delle nuove consultazioni elettorali per l’elezione del Parlamento Europeo, ci chiediamo quali prospettive ci attendano perché siamo di fronte ad un bivio e dobbiamo scegliere quale strada intraprendere: quella dell’integrazione definitiva verso un’Unione Europea dove il termine unione non sia più un semplice auspicio a cui tendere, oppure possiamo scegliere la disgregazione che si nutre di veti e di capri espiatori, dove uno dei principali è il fenomeno migratorio?”
Europa verso la chiusura: estrema destra, sovranismi, muri
Una domanda per cui Angela Mauro sembra avere pochi dubbi, soprattutto dopo l’approvazione definitiva del Patto Europeo Migrazioni e Asilo da parte dei Ministri Finanziari del Consiglio Europeo il 14 marzo: “Questo patto sancisce la fine del diritto d’asilo in Europa, negoziato dai 27 Stati e sul quale si è scesi a notevoli compromessi con i partiti nazionalisti. È un patto molto concreto nella parte securitaria, con controlli alle frontiere anche sui minori di sei anni se ci sono problemi sulla sicurezza, ma debolissimo nella parte che riguarda l’accoglienza, parola che oramai è completamente sparita dal dibattito europeo”.
Se la chiusura verso l’immigrazione e la protezione delle frontiere sono la prima manifestazione di una politica europea sempre più votata ai respingimenti e alla difesa, c’è un secondo indizio, per la giornalista, che è in grado di indicarci cosa potrebbe avvenire dopo le elezioni e quale orientamento potrebbero prendere le decisioni future in materia di accoglienza e sicurezza: “il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha affermato che è possibile cooperare con la destra estrema a patto che, nel conflitto, sia dalla parte dell’Ucraina e che non sia troppo anti-europeista. Anche se su quest’ultimo punto bisogna considerare che, dopo la Brexit ed i danni che ha provocato, nessun partito parla più di uscire dall’Unione Europea, perché i fondi comuni, alla fine, fanno comodo a tutti”.
Green Deal: la guerra e l’aumento dei costi
“Se l’immigrazione è il primo grande nodo, il secondo è quello del Green Deal”. L’Europa, che si era dimostrata unita e forte nell’affrontare la pandemia e che si aspettava una ripresa, si è trovata invece ad affrontare una nuova crisi economica ed energetica, inaspettata, generata dalle ripercussioni della guerra in Ucraina e dal conseguente aumento dei costi della transizione, inevitabilmente ricaduti sui cittadini. È stato facile, allora, per una propaganda che comunica con la pancia della popolazione e che sa far leva sulle paure senza proporre veramente soluzioni, alimentare la nascita di partiti populisti e sovranisti che promuovono l’interesse individuale a discapito del bene comune e dove il malcontento della popolazione viene alimentato e sostenuto dalle destre europee. “Persino i polacchi, che sono i più anti-Putin di tutti, hanno manifestato in piazza per la politica adottata dall’Unione Europea rispetto al grano ucraino, importato senza dazi per aiutare Kiev. Oppure, pensiamo alle rivendicazioni portate in piazza dall’estrema destra, con gli agricoltori che hanno manifestato a Bruxelles mettendo a ferro e fuoco la città”.
Un quadro politico tutt’altro che roseo, quello che si prospetta nell’analisi politica di Angela Mauro, con uno scivolamento a destra dell’Unione Europea e cedimenti verso gli interessi nazionali piuttosto che un cammino verso una maggiore integrazione degli stati membri, a favore dei partiti ultranazionalisti, dati per favoriti dai sondaggi e già in grado di influenzare l’agenda europea, dove il tema dell’immigrazione rappresenta “la prima terra di conquista” e dove erigere muri sembra non rappresentare più un tabù, come invece avveniva in passato. “Qualche anno fa, quando gli Stati dell’Est iniziavano a paventare la costruzione di muri, Ursula Von Der Leyen si oppose con fermezza. Michel, ora, non la esclude affatto come ipotesi: possibili muri costruiti con i fondi dell’Unione Europea. E questa è la stessa Europa che contestava il muro di Trump”.
Piano Mattei e mancanza di visione
Il problema, al di là dei muri “che per loro natura possono cadere, come è avvenuto per esempio a Berlino” è, per Federico Niglia, se l’Unione Europea avrà una capacità di visione tale da poter comprendere che si sta cercando di arginare fenomeni migratori “che hanno una natura strutturale, pluriennale e sicuramente non contenibile con gli strumenti politici di cui dispongono sia gli Stati membri che l’Unione”.
Significativo, a questo proposito, il Piano Mattei, definito da Giorgia Meloni “una grande sfida strategica italiana”, con oltre 50 attori coinvolti nella cabina di regia provenienti dalla politica, imprese, università e terzo settore, tutti coinvolti in un piano strategico, di durata quinquennale, per la costruzione di un nuovo partenariato tra l’Italia e gli Stati Africani, distribuito su sei aree: istruzione, sanità, acqua, agricoltura, energia, infrastrutture. Con questo piano si vuole promuovere uno sviluppo sostenibile e duraturo attraverso un approccio “globale e non predatorio” nei confronti dell’Africa, per porre fine alle cause che generano la necessità di migrare. “Credo che Giorgia Meloni sia stata brava a dargli questo nome, perché a livello di comunicazione è molto efficace”, riportando alla memoria il modus operandi di Enrico Mattei, ex presidente Eni scomparso nel 1962, del quale si vuole imitare l’approccio democratico e appunto “non predatorio” rispetto all’Africa. “È un piano volutamente vago, che quindi si presta per essere plasmato e modificato in funzione di un’Unione Europea e di un’Africa in cambiamento, che permette di interpolare vari elementi che collegano Italia ed Africa, come l’Eni per esempio, ma anche la cooperazione tecnica che fino agli anni ’80 è stata dominante, fino ad includere il terzo settore”.
Parlare di approccio predatorio porta, però, a fare riferimento ad altri soggetti internazionali, in particolare alla Cina, tirata in causa per mostrare come all’Europa manchi fondamentalmente una visione: “la Cina ha una visione in Africa, mentre l’Europa no. La Cina ha avuto un’evoluzione storica di cui ci stiamo accorgendo adesso, nel passaggio dalla vecchia leadership di Mao Tse-tung quella di Deng Xiaoping, passando da un ruolo a basso profilo, dove era importante soltanto esportare e produrre, senza immischiarsi in affari internazionali, ad una fase diversa in cui ha riconquistato una coscienza politica e di lungo periodo della sua centralità internazionale e del suo ruolo nel mondo”.
Quanto ad un cambio di rotta della politica estera europea nei confronti dell’Africa, Niglia non ritiene che una deriva sovranista porterà ad una scomparsa delle relazioni, perché gli interessi esistenti non solo riguardano l’immigrazione, ma anche enormi partenariati commerciali. “Dopo le elezioni, anche in un clima di sovranismo, ci sarà ancora una politica europea verso l’Africa ma avrà dei limiti strutturali, rilevati nell’assenza di una global strategy” ma sarà la via più difficile, “perché i sovranismi faticano molto ad immaginarsi come dei conservatorismi dotati di una prospettiva realmente internazionale”.
Natascia Accatino
(20 maggio 2024)
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