“Cos’è cambiato da quando ho iniziato a insegnare ad oggi? Che sono diventato più curioso”. Franco Lorenzoni ha iniziato la sua carriera di maestro elementare quarant’anni fa, con un tirocinio nella periferia milanese. Allora non c’era un numero consistente di bambini stranieri, ma i problemi di integrazione non mancavano: i migranti c’erano, venivano dal sud Italia, e spesso parlavano solamente il dialetto. “Eppure”, ricorda il maestro “siamo riusciti a lavorare bene lo stesso”. Perché è nelle situazioni più disagiate che nasce l’inventiva, la sperimentazione, e soprattutto quell’autoformazione degli insegnanti su cui Lorenzoni insiste così tanto.
In tempi di incontro fra culture, Lorenzoni non ci sta ad avere classi in cui alcuni dei bambini siano considerati italiani di serie B. Per questo ha promosso un appello che ha raggiunto circa 3700 firmatari e il 2 ottobre si concretizzerà in un incontro pubblico che preparerà uno sciopero della fame simbolico il 3 ottobre, a cui hanno aderito oltre 800 docenti di tutta Italia. La motivazione è lineare: Io non posso accettare di avere in classe ragazzi cittadini e ragazzi che cittadini non saranno mai. È per un motivo educativo e perfino didattico che mi ribello alla non cittadinanza, perché quella condizione mina alla base il mio mestiere, si legge nel documento. Insegnanti per lo Ius Soli, si sono chiamati, e ripartono da qui: da azioni concrete e iniziative diffuse, sperando che le istituzioni raccolgano i loro suggerimenti.Di proposte concrete per rendere la scuola meno autoreferenziale e più inclusiva, Lorenzoni ne ha eccome: “ad esempio, sarebbe importante fare una vera informazione sulla migrazione, partendo dai dati”. Alle elementari? Certamente. A Giove, nella sua piccola scuola immersa nel verde delle colline umbre, Lorenzoni lo ha fatto per un anno intero. “In terza elementare ho cinque bambini migranti su venti. Quando uno dei loro compagni di classe mi ha chiesto perché si emigra? ho pensato che fosse ora di affrontare l’argomento”. E lo ha fatto, parole e numeri alla mano: il papà di uno dei bambini, uruguayano trasferito in Italia, ha raccontato alla classe una storia che parte da molto lontano: quella del suo bisnonno, che dal Friuli era emigrato prima in Argentina, poi in Uruguay. “L’abbiamo chiamata la storia del doppio ritorno” racconta Lorenzoni, che con i bambini ne ha fatto anche un lavoro teatrale.E poi ci sono i dati, a provare le storie. Si confronta il reddito pro-capite degli abitanti del sud del mondo con quelli del nord, i tassi di natalità: così si impara cos’è una migrazione economica. Linguaggio narrativo, matematico e teatrale lavorano insieme e trovano riscontro nella realtà: quando a Giove arrivano quindici rifugiati nigeriani, mentre alcuni abitanti del paese manifestavano diffidenza, seguendo il suggerimento di una maestra della scuola, i bambini a dicembre organizzano con le famiglie un pranzo insieme a loro. “Avere alle spalle quel lungo lavoro sulle storie dei migranti ha dato i suoi frutti”.Lecito chiedersi se la situazione della scuola italiana sia poi così compromessa, se la normativa sia davvero tanto insufficiente. Lorenzoni ha la sua risposta: “se dovessimo realizzare una scuola sulla base delle indicazioni ministeriali del 2012, sarebbe bellissima: si parla di competenze, di inclusione…il punto è che non basta fare leggi giuste per vederle applicate”. Molto dipende dai dirigenti scolastici: ci sono gli innovatori illuminati che si spendono con intelligenza per sostenere l’innovazione e quelli che si accontentano della gestione burocratica e non ce la fanno a promuovere una scuola realmente inclusiva. “Le realtà sono molto diverse nei vari territori e va anche detto che troppo spesso noi docenti siamo impauriti di fronte a genitori sempre più in preda dell’ansia”.In effetti le famiglie dei bambini sono uno dei grandi nodi focali della scuola. Lorenzoni è cauto nelle valutazioni ma osserva un dato rilevante: “la storia è scomparsa dalla vita delle famiglie. Non si affrontano più come un tempo i grandi temi dell’umanità: la lotta per la libertà, la conquista della democrazia, le ragioni della pace… i bambini si trovano schiacciati su un presente – tecnologico – stracolmo di informazioni”. E la scuola si ritrova con difficili problemi etici da affrontare.Lorenzoni parte dai bambini. Sarà perché crede molto in quella che chiama pedagogia dell’ascolto, ovvero la capacità di raccogliere dai più piccoli stimoli e suggerimenti: “li ascoltiamo troppo poco, i bambini” spiega “se lo facessimo di più scopriremmo dei mondi”. Come quello della sua alunna marocchina, che descrivendo la matematica come una bicicletta nella testa che se si ferma cadi ha regalato alla classe un piccolo estratto della sua cultura. “Non lo sapevo, ma nella sua lingua materna, in arabo, la parola matematica ha un significato che evoca il concetto di allenamento. Così, senza saperlo, lei ha trasposto quel concetto in italiano, creando l’immagine bellissima della bicicletta nella testa”. E conclude: “è in casi come questo che penso che noi insegnanti non dovremmo perdere la nostra vocazione alla ricerca, che è la parte più affascinante e necessaria del nostro lavoro”.
Veronica Adriani(28 settembre 2017)
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