La nona edizione di Libri Come, dedicata al tema della Felicità, ha incluso uno spazio per la seconda tappa del progetto “La frontiera”, che vedrà presto la costituzione di una piattaforma. Azzardato accostare felicità a immigrazione? No, perché è la speranza di una vita migliore che spinge le persone a emigrare e perché la felicità aumenta se viene condivisa.Anche in questo appuntamento c’erano tre esperti a rispondere con le loro riflessioni alle domande raccolte dall’associazione Piccoli Maestri. Nuovi spazi di condivisioneLa sociologa Gabriella Turnaturi ha dedicato il suo intervento alla ricerca di nuove “soglie”, spazi pubblici di condivisione di pratiche quotidiane che possano dare inizio a qualcosa di nuovo. Il concetto di soglia implica il riconoscimento dello straniero come estraneo, perché sta su una soglia tra uno spazio fisico che coabita e uno spazio culturale e emozionale che non conosce. La domanda politica che deriva da questo presupposto è: che cosa possiamo fare con gli immigrati, non per o di loro, facendoci carico della loro speranza non per carità ma perché la loro speranza può dotare di nuovo senso anche la nostra speranza, invece di ripiegarci sulla nostalgia. Le parole chiave, quindi, sono: rispettare e condividere. È nella condivisione degli spazi pubblici che si costruisce un sapere preliminare alla cittadinanza. Un esempio: gli spettacoli di strada, in cui, fruendo di forme d’arte improvvisata, il pubblico fa esperienza di condivisione di emozioni, commenti, discussioni con persone sconosciute. L’immigrazione come fattore di riequilibrio mondialeL’economista Emanuele Felice ha premesso al suo ragionamento la considerazione che l’assunto dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, proclamato dall’ordine liberal-democratico in cui viviamo, viene smentito dal fatto che a determinare le differenze è il luogo in cui nasce. Nella Dichiarazione dei Diritti Umani non c’è il diritto di vivere dove si vuole, questo è un vulnus etico prima che economico.Ha poi demolito il luogo comune che l’immigrazione sia causata dalle accresciute diseguaglianze indotte dalla globalizzazione: esse sono aumentate moltissimo dalla fine dell’ ’800 agli anni ’70 del ‘900, mentre con la seconda globalizzazione in atto sono diminuite e quanto più si ridurranno tanto più aumenterà l’emigrazione. Per questo la retorica dell’ “aiutiamoli a casa loro” è falsa. Piuttosto, per capire i fenomeni migratori, bisogna tener conto dell’aumento della fertilità in Africa e altri Paesi del Sud del mondo, contro l’invecchiamento della popolazione europea.Inoltre, se consideriamo che il reddito di un nigeriano è 1/14 di quello europeo e che nei Paesi da cui si emigra, grazie alle rimesse, il reddito aumenta, mentre nei Paesi europei i salari diminuiscono, si può capire perché le migrazioni sono un grande fattore di riequilibrio mondiale.Infine, la storia dimostra che le grandi nazioni hanno sempre saputo integrare gli immigrati. La condizione per farlo è che le istituzioni siano solide, sappiano includere l’immigrato nel tessuto sociale e salvaguardino l’assetto democratico. Se pensiamo al sindaco di Londra, musulmano e sostenitore dei diritti dei gay, capiamo che la sfida si può vincere. Il razzismo nasce dall’indebolimento della democraziaL’intervento della scrittrice e avvocato Simonetta Agnello Hornby è partito dalla sua storia di emigrante che 52 anni fa ha deciso di vivere in Inghilterra e che, pur essendo “immigrata doc” con tanti vantaggi, con una laurea italiana in giurisprudenza, ha impiegato 15 anni per essere accettata nella law society. Ma il focus del suo discorso è stata la critica alle nostre democrazie indebolite, dove si vota per simpatia o per rabbia, ma così la democrazia muore. In particolare, la Brexit in Inghilterra è stato “il più grande schiaffo alla democrazia”, votata non dalle grandi città né dai giovani, ma da gente non consapevole delle reali conseguenze di una questione politica così grande.C’è razzismo verso i migranti, soprattutto verso le donne. Poco tempo fa giovani ragazze nere sono state attaccate fisicamente da uomini di mezza età, e la reazione della classe politica e intellettuale è stata l’indifferenza, giustificata dal principio neoliberale che lo Stato deve intervenire il meno possibile. Per combattere il razzismo, invece, bisogna educare la gente che vive e quella che viene alla reciproca conoscenza delle diverse culture. La speranza è che le donne, per cui la democrazia è cosa relativamente nuova, sappiano fare meglio degli uomini, che hanno fallito.I prossimi appuntamenti del progetto La frontiera sono il 24 marzo al BookPride a Milano e il 4 aprile su Robinson di Repubblica.
Luciana Scarcia
(19 marzo 2018)
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