C’è un mondo che si è ormai sgretolato, quello del nuovo ordine mondiale, della globalizzazione, del multiculturalismo. E il volto più espressivo di questo cambiamento storico è quello degli immigrati. “Ci sono decine di milioni di persone che non sono rifugiate perché non gli diamo asilo; tra qualche decennio, forse saremo tutti rifugiati – di noi stessi”.
Con questa amara nota Agus Morales chiude l’edizione italiana del suo libro Non siamo rifugiati. Viaggio in un mondo di esodi, Einaudi. Un libro-reportage, in cui l’autore, reporter freelance e direttore della rivista di cronaca internazionale “5W”, racconta le storie di chi fugge dalle guerre, raccolte nell’arco di una decina d’anni andando nei luoghi dei conflitti (Siria, Pakistan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo), alla frontiera del Messico, nei Campi profughi in Giordania e nella Repubblica Centrafricana, nella sede del Parlamento tibetano in esilio nell’India del Nord e in alcuni Paesi europei come Norvegia, Spagna e Germania a intervistare immigrati integrati. Un libro che attraverso queste storie ci costringe a guardare il mondo in cui viviamo e a interrogarci sul futuro.
L’ultimo atto di libertà di Ulet
Prima di morire sulla nave di soccorso che dal centro di detenzione libico lo stava trasportando in Europa, Ulet, un quindicenne somalo ridotto in schiavitù, stremato dalle malattie e torture subite, ha sollevato il suo corpo straziato per guardare il mar Mediterraneo, “quel punto di incontro tra l’Europa e l’Africa, le coordinate in cui ogni vita inizia a valere – solo un po’ −, la soglia simbolica tra il Nord e il Sud: una linea capricciosa in mezzo al mare che segna la differenza tra l’esistere e il non esistere, tra la terra europea e il limbo africano”. Sbarcato in Italia, muore qualche giorno dopo. Con questa triste immagine di Ulet si apre il libro di Morales: lo sguardo al Mediterraneo, soglia della salvezza, come ultimo atto di libertà. La stessa immagine che il libro di Leogrande, La frontiera, dà del Mediterraneo “ termometro del mondo”, linea immaginaria che separa e unisce il mondo di prima e quello che deve ancora venire, forse. Come il libro di Leogrande, anche questo di Morales è animato dalla stessa voglia di raccontare le storie di chi fugge e i luoghi da cui proviene e di far conoscere a noi, che viviamo lontani dalla violenza e dalla guerra, le cause che producono gli esodi di migliaia di uomini.
Solo un terzo delle persone che fuggono sono rifugiate
“Volevo scrivere un libro su persone che – come Ulet – fuggono dalla guerra, dalla persecuzione politica e dalla tortura (…) Volevo scrivere un libro sulle persone che frange ufficiali e non ufficiali dell’Occidente vogliono trasformare nel nemico del XXI secolo. Volevo scrivere un libro sui rifugiati” scrive Morales, ma, dopo aver raccolto le loro storie viaggiando per una decina d’anni dal Sud Sudan all’India, si rende conto che ben poche delle persone intervistate sono dei rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra e l’UNHCR. Non è un rifugiato Ulet; non lo è il maestro del Sud Sudan scampato al conflitto tribale – e per il controllo dei pozzi petroliferi − scoppiato dopo l’indipendenza del 2011; né la giovane congolese incinta, stuprata da una milizia in un conflitto che, terminato formalmente nel 2003, continua usando la violenza sessuale come arma di guerra (in Congo, secondo un rapporto dell‘American Journal of Public Health, 1152 donne vengono violentate ogni giorno); né l’adolescente siriana portata e salvata in un ospedale turco perché colpita da un cecchino e resa invalida. Degli oltre 65 milioni di persone – quasi l’1% della popolazione mondiale − che hanno lasciato la propria casa appena un terzo sono rifugiate in uno dei Paesi d’oltre frontiera, quasi tutte le altre sono espatriate interne. Non ci sono mai state tante persone come adesso che non sappiamo come definire, ma fuggono dalla violenza e non hanno protezione. E mai come adesso c’erano state tante crisi umanitarie.
La guerra del XXI secolo si è delocalizzata
Questo perché, spiega Morales, gli esodi generati dalle nuove guerre del XXI secolo, come in Siria, si vanno a sommare allo stillicidio di conflitti ristagnanti, come quelli in Somalia o Afghanistan, che affondano le radici nella Guerra fredda o nei primi anni del nuovo ordine mondiale. “Più che un mondo in cui trionfa la guerra, è un mondo dove la pace fallisce”. La guerra si è delocalizzata e ha cambiato forma: il XXI secolo è l’epoca degli interventi militari stranieri (Afghanistan, Iraq), delle guerre civili (Siria, Sud Sudan), di Stati militarizzati contro gruppi ribelli (Pakistan). Il numero e la varietà degli attori armati moltiplica l’incertezza. La guerra si è delocalizzata, si è allontanata dall’Occidente. Ma la violenza ci ritorna sotto altre forme e ci costringe a cambiare il nostro sguardo sul mondo.
Luciana Scarcia
(24 agosto 2018)
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