“Ho scelto il calcio perché giocavo ai tempi dell’università. Nella squadra dicono che sono una delle più coordinate. Se non segno faccio l’assist. Nell’ultima partita ho sentito che eravamo veramente noi, è stata bellissima, abbiamo giocato molto bene”, racconta entusiasta Aicha, attaccante delle Libere Nantes.
La Libere Nantes è la squadra di calcio a 5, frutto, insieme ad altre iniziative sportive, del progetto S(up)port Refugees Integration (EAC 2017-0492) dell’Erasmus+, presentato e vinto dall’ASD Liberi Nantes nel 2017 e partito a febbraio 2018.
Libere Nantes: i primi passi tra difficoltà e stupore
“Dedicarsi alle donne è da sempre stato nelle corde dell’ASD Liberi Nantes”, sottolinea David D’Agnelli, coordinatore del progetto per l’organizzazione delle attività. “Le beneficiarie del progetto sono donne rifugiate politiche e richiedenti asilo con età comprese tra i 15 e 45 anni. Abbiamo preventivato di raggiungere 100 ragazze e ci siamo riusciti. Oltre al calcio a 5 fanno parte della programmazione altre 3 attività sportive: touch-rugby, ginnastica posturale ed escursionismo. Nel calcio abbiamo avuto per lo più ragazze giovani e con tante energie, principalmente dell’Africa Sub-sahariana, mentre per la ginnastica posturale l’adesione maggiore è stata delle ragazze più grandi del Sud Est asiatico e del Medio-Oriente”.
Gli allenamenti di calcio e di touch-rugby si sono svolti nello storico campo dei Liberi Nantes, il campo XXV Aprile, mentre per la ginnastica posturale c’è stato il supporto della sede di Asinitas in Via Policastro. Case famiglia, SPRAR, CAS, case di fuga, le ragazze venivano da luoghi sparsi su tutto il Lazio, fino da Viterbo, portando con loro situazioni diverse che sono state motivo di stimolo per capire e migliorare l’approccio sportivo, soprattutto per il calcio sul campo. “Ad esempio con le ragazze vittime di tratta inizialmente si è posto il problema del contatto, ma la conoscenza e la bellezza del gioco ha stupito tutti vincendo ogni diffidenza e creando reciproca fiducia. Il primo periodo, di circa un mese, durante la fase di ingaggio è stato importante per creare le prime basi: siamo andati nei vari centri a promuovere il progetto: mostrare le attività, farci conoscere e abbattere malintesi soprattutto con il touch-rugby”.
Quali le difficoltà una volta in campo? E le conquiste?
“Quando sono scese in campo quelle che noi avevamo preventivato come delle difficoltà, ad esempio l’indossare dei calzoncini corti per le ragazze mussulmane, si sono risolte con naturalezza. Una di loro ha detto che faceva caldo con i pantaloni e le maniche lunghe e così è stato spontaneo indossare i calzoncini. In realtà quello che è emerso, ascoltando le insegnanti, è che i problemi non erano connessi tanto alla religione ma ai nuclei familiari di provenienza: sentirsi frenate dal marito o da una famiglia di stile patriarcale. Per molte è stata occasione di uscire dal centro di accoglienza e prendersi del tempo per se, scoprire o tornare a vivere le proprie abilità e riappropriarsi del proprio corpo, creare delle amicizie”.
Libere Nantes: coordinamento e integrazione. Crescere insieme.
“Rispetto ai ragazzi le ragazze sono più puntuali. Gli allenamenti e le attività le svolgevamo all’ora di pranzo per permettere a tutte, anche a chi veniva da lontano, di poter partecipare e rientrare non troppo tardi, in tranquillità, con i mezzi pubblici” prosegue David. “Inoltre il campionato di calcetto a 5 a cui partecipano è dilettantistico, si gioca sempre in casa e di domenica, e anche questa è una situazione tranquilla”.
Coordinare una squadra femminile è del tutto diverso da una maschile. David ha il calcio nel DNA: il padre è stato per tanti anni vice-presidente di una squadra di calcio femminile e la sorella ha giocato a calcio.
“Quello che più colpisce è che le ragazze non vengono a giocare per diventare delle calciatrici, al contrario dei ragazzi che ti dicono “io sono il nuovo Cristiano Ronaldo”, lo fanno per la bellezza del gioco, per divertirsi. È stato più facile con loro accorciare le distanze perché c’era più partecipazione oltre la partita: spesso si fermavano a pranzare insieme. Hanno un bisogno maggiore di integrarsi e arrivano a condividere le loro storie spesso forti e drammatiche. Le difficoltà sono state inizialmente nell’organizzare il tutto e poi su un altro fronte nel cercare di non essere sempre la stessa persona. Ho cercato di svuotarmi e ricaricarmi a seconda di chi avevo davanti così da andare incontro alle specifiche necessità. La parte più bella è proprio questa, quando si crea uno scambio. Noi siamo cresciuti tantissimo come persone e associazione, grazie a loro”.
Vivere in un centro di accoglienza spesso diventa totalizzante, la tua vita si spende interamente all’interno, non aiuta a integrarsi e mancano quegli stimoli che confrontandosi con persone diverse nascono e alimentano la voglia di andare oltre. “Quando giochi sul campo l’integrazione avviene con naturalezza, ma importante è il contesto sociale in cui l’iniziativa è calata: il calcio non basta. Certo aiuta a ridurre le distanze”.
Libere Nantes: Aicha, attaccante
“Sono algerina e sono in Italia dal 21 settembre 2017” a parlare è Aicha, 37 anni, è laureata in Scienze Politiche e ha seguito una formazione in sartoria, realizzando negli ultimi anni un suo laboratorio. “Sono una donna forte e questo non va bene nel mio Paese: la donna non può essere libera di fare quel che vuole, ma deve sposarsi, avere dei bambini, stare in casa e non parlare di niente. I miei fratelli mi picchiavano a causa del mio temperamento: per loro ero una donna e dovevo fare quello che volevano loro e non quello che io avrei voluto. L’esser riuscita nella mia vita a fare tutto quello che mi ero proposta, non andava bene”.
Così nel 2017, Aicha ascolta il consiglio di un amico che le suggerisce di sfruttare la sua laurea per chiedere di continuare a studiare in Europa.
“Ero rimasta in casa per mia madre che aveva più di 80 anni. In famiglia siamo 8 sorelle e 3 fratelli, io sono la più piccola. Ogni volta che provavo ad andare via, loro mi ritrovavano. Il 9 agosto 2017 sono andata ad Algeri perché il giorno dopo avevo appuntamento al Consolato per i documenti. Sono rimasta la notte in albergo e questo per i miei fratelli significava “essere una donna di facili costumi”. Quando sono tornata a casa l’11 agosto mi hanno messo un coltello al collo e cosparso di benzina, ho chiamato la polizia. Dicevano che era un problema familiare e non sono intervenuti. Sono andata in ospedale per curarmi e dopo 10 giorni è arrivato il via libera dal Consolato. Volevo solo andare via. Ho preso l’aereo che faceva scalo a Fiumicino, tutti mi guardavano perché avevo il volto segnato dalle ferite. Ho chiesto aiuto e lì, non ricordo neanche io bene come, mi hanno ascoltato e fatto fare domanda di asilo in Italia”. Così Aicha per puro caso si ferma a Roma perché la sua destinazione finale era un’università in Ucraina.
“Non sapevo dove andare, cosa fare. Mi hanno portato in ospedale, sono stata aiutata da psicologi e ho avuto la protezione umanitaria per 2 anni. Adesso sono nella casa di accoglienza “Penelope” in Via Ramazzini: posso mangiare e dormire ma devo pensare al futuro. Sto cercando lavoro nella sartoria, ma non è facile perché non conosco bene tutti i termini del mestiere in italiano. Per ora ho fatto solo piccoli lavoretti di pulizie negli alberghi. Nel centro Penelope non esistono attività da svolgere: ho fatto formazione fotografica al Cara di Castelnuovo di Porto e lì ho conosciuto il progetto di Libere Nantes. Qui il mio ruolo è da attaccante.
Mi sento sempre con le mie sorelle, ma con i miei fratelli mai. Anche loro sono scappate, la maggiore ha più di 55 anni, infatti mia madre si è sposata a 13 anni”.
E il futuro?
“Non ho sogni ora, però ho meno paura. Ho spesso un incubo: sono in Algeria e sto aspettando i documenti, piango e non riesco più a tornare in Italia. Mia sorella dice che significa che non credo ancora che sono qui e che sono in salvo”.
Libere Nantes: continua
Sono una decina di ragazze che si alternano sul campo, anche se le tesserate sono 15 con l’aggiunta di qualche italiana per dare ancora di più l’idea di un’armonia come dal nome “Libere Nantes”. La lingua ufficiale in campo? L’italiano.
“A novembre siamo stati chiamati a Bruxelles per esser premiati con il #BeInclusive Sport Award: eravamo tra i migliori 9 progetti su 111. L’unico italiano”. Alberto Urbinati, presidente dell’ASD Liberi Nantes, racconta un importante traguardo raggiunto e il significato sottinteso. “È stato un riconoscimento significativo soprattutto perché il target del progetto sono le donne rifugiate politiche e richiedenti asilo ed è particolarmente difficile, anche solo per le barriere culturali, coinvolgerle nello sport. Inoltre molte di loro, vittime di tratta, vivono in strutture protette, perché hanno seguito un percorso migratorio particolarmente duro. La vera gioia, che supera in soddisfazione ogni riconoscimento ufficiale, è stata vedere queste ragazze correre felici sul campo”.
Il progetto si è chiuso a dicembre ma le Libere Nantes continuano a giocare ogni domenica pomeriggio.
Silvia Costantini
(17 gennaio 2019)
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