Il numero di armeni presenti sul territorio della capitale è stimato intorno ai 200 nuclei familiari. “Ma bisognerebbe definire i limiti di ‘armenità’, tutti quelli il cui cognome finisce in yan? Chi è nato da genitori armeni, o chi da almeno uno dei due?”, spiega Metaksya Vanoyan, trentatreenne laureata in Lingue all’università di Yerevan e ora laureanda in Turismo a Tor Vergata. Con la sua neonata agenzia di viaggi ha collaborato alla realizzazione del documentario di Piero Marrazzo “I figli dell’Ararat. L’avamposto”, che sarà proiettato il 4 del prossimo mese nell’ambito della rassegna “I giardini di luglio”, presso l’Accademia Filarmonica Romana. “È un’occasione per presentare la nostra cultura nel cuore di Roma”, commenta Anahit Sirunian, curatrice dell’evento facente capo all’ambasciata del paese caucasico. “Prevediamo un pubblico internazionale, la cooperazione tra i due paesi è ricca e multiforme come le loro tradizioni”.
La presenza in Italia si può ricondurre, semplificando, a due fasi distinte nel tempo. Una che ha visto l’arrivo della prima diaspora, i discendenti dei superstiti del genocidio del 1915, provenienti dall’Armenia storica, “persone anziane, cattoliche, spesso sposate con italiani, i cui figli parlano poco o niente la nostra lingua”, prosegue la Vanoyan. La seconda comprendente “noi della giovane repubblica indipendente, di confessione apostolica”. Il livello di istruzione è elevatissimo, “abbiamo una sorta di venerazione per lo studio, la stragrande maggioranza è laureata e impariamo facilmente diversi idiomi, anche per le condizioni di vita subite negli anni”. Una comunità dunque in grado di integrarsi senza problemi con quella ospitante, “ma manteniamo una forte identità e orgoglio nazionale”. L’associazionismo è molto diffuso, “anche troppo, perché siamo pochi e distribuiti ovunque nel territorio, quindi questi gruppi sono tendenzialmente piccoli, tranne un paio di più vecchi e consolidati, a Roma e Milano”.
Diffusione della cultura Oltre al prossimo “Giardini di luglio”, sono numerosi gli eventi organizzati anche per permettere una più approfondita conoscenza delle loro tradizioni e cultura da parte nostra. Quest’anno cade il cinquecentesimo anniversario della stampa armena, per l’occasione sono state realizzate manifestazioni importantissime a livello nazionale, come “Armenia. Impronte di una civiltà”, al museo Correr di Venezia, dove fu pubblicato il primo testo, altre mostre al Palazzo Braschi e in diverse province. “Ovunque ci sia traccia della comunità si assiste a concerti, presentazioni di libri, proiezioni di film e documentari. Tutte le attività sono aperte a chi voglia avvicinarsi per saperne di più”, aggiunge Veronica Orfalian, laureata in Letteratura comparata alla Sapienza di Roma, seconda classificata al concorso “Figli di tante patrie” e vincitrice del premio Slow Food Terra Madre del Salone internazionale del libro di Torino. Il giorno più importante resta il 24 aprile, commemorazione del genocidio, “una realtà sempre presente per i sopravvissuti e i loro eredi. Gli armeni della diaspora sono un popolo senza una terra. Spesso mi chiedono se ho voglia di tornare in Armenia, riferendosi a quella attuale, ma ignorano che gran parte di noi proviene dai territori turchi”.
L’influenza della tradizione nella scrittura “Sin da bambina ho assorbito i colori, i profumi e le atmosfere ‘diverse’ della mia casa. All’inizio non mi ero accorta di questa ‘estraneità’, nel confronto con i coetanei ho percepito e preso coscienza delle differenze. Non era un male, ma da piccoli si cerca sempre di essere parte del gruppo. Solo da adulta ho compreso tutta la ricchezza di questo patrimonio personale e non ho potuto fare a meno di condividerlo nella scrittura con chiunque avesse desiderio di saperne di più e leggere cosa avevo da raccontare”. La scelta di intraprendere questa strada dopo la lettura di “Il latte è buono”, dell’autore somalo di stirpe reale Garane Garane “che racconta il suo percorso verso l’autoconsapevolezza della sua origine. Parte dalla Somalia sentendosi caffè, arriva in Europa scoprendosi latte, fino ad arrivare alla sintesi di caffè macchiato, per la pluralità di culture che componevano la sua persona. Ecco, mi sono sentita e mi sento caffè macchiato anche io, da lì ho deciso che avrei seguito quel cammino che considero come una forma di ricerca”. Per quanto riguarda il futuro “cerco di conquistarlo giorno dopo giorno, passando di crocevia in crocevia, il che spesso impone delle scelte. Attualmente sto lavorando sulla storia della famiglia, ancora il tema della memoria perché ciò che è successo agli armeni non venga dimenticato”.
Gabriele Santoro(28 giugno 2012)