Creare dodici cooperative in sei città – Brescia, Trieste, Ferrara, Parma, Roma e Lecce – coinvolgendo 245 titolari di protezione internazionale vulnerabili, tra cui 18 donne con minori, in percorsi propedeutici all’imprenditorialità in forma associata. È l’ambizioso progetto biennale Re-Start up, patrocinato dal ministero dell’Interno e co-finanziato dalla Commissione Europea attraverso il Fondo Europeo per i Rifugiati 2008-2013, con il sostegno di una rete di associazioni, tra cui Integra e Lazio Form per quanto riguarda la nostra area urbana. Avviato da settembre, il programma è stato presentato la mattina del 23 gennaio presso il Centro cittadino per le migrazioni, l’asilo e l’integrazione sociale di Roma Capitale, in via Assisi 41.
“Il contesto nazionale evidenzia la necessità di formulare diverse ipotesi operative”, introduce il discorso Federico Tsucalas, referente per il progetto della cooperativa sociale Camelot, “predisporremo di strumenti di rilevazione per integrare la formazione con azioni di sostegno psico-sociale per promuovere il pieno sviluppo dei percorsi imprenditoriali”, grazie ad un’equipe multidisciplinare che andrà a toccare professionalità dall’ambito sanitario al legale. La prima annualità, che terminerà il prossimo giugno, è suddivisa quattro fasi. Inizialmente “una ricerca socio-economica per la valutazione delle vulnerabilità e la raccolta dei curricula dei 750 candidati”. A seguire, nello stadio attualmente in corso, “l’individuazione dei destinatari”, con modalità di selezione che terranno conto “del livello di integrazione, conoscenza della lingua, grado di autonomia”, giungendo così al numero prefissato di 245. Da marzo, l’attivazione dei corsi di formazione, “non solo frontali, classici, ma tenendo conto delle fragilità, con sostegno e aiuti specifici”. Quindi, la scelta delle iniziative imprenditoriali, due per ogni territorio coinvolto, metà delle quali con lo start-up previsto per la fine del primo anno. Nel secondo, da luglio 2013 a giugno 2014, l’avviamento delle ulteriori sei aziende. Fondamentale il monitoraggio, “con tavoli tematici e di coordinamento per una corretta gestione e azioni trasversali in accordo con enti pubblici, dai seminari per gli operatori al baby-sitting per le donne con minori. Un comitato scientifico si occuperà di valutazioni e report”. L’opzione sulla forma cooperativa è stata preferita per privilegiare “una trasmissione di valori che può portare ad una migliore riuscita”.
Obiettivo integrazione, ma cosa si intende? “Vengono date diverse risposte alla domanda su cosa sia l’integrazione, ma io non ne ho una”, interviene Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. “Di certo non può bastare l’avere alloggio e lavoro, come sostiene qualcuno. La vedo più come vivere a proprio agio nel posto in cui ci si trova, includendo accesso ai servizi, scuola, sanità, senza rinunciare alla propria identità, sentirsi liberi, insomma”. Nel settore delle attività il percorso di autonomia ha anche a che vedere con il contesto territoriale, dove si può avere la possibilità di incidere sul cambiamento, “regioni virtuose come l’Emilia hanno un’esperienza consolidata e un terzo settore forte, anche quando non si raggiunge l’obiettivo prefissato si sente comunque una spinta, la vitalità”. Assoluta necessità è il supporto alle fasce vulnerabili, elemento fondante del progetto, dove pur nelle loro specificità si riscontrano tratti comuni: “le donne, sole o in nuclei familiari, trovano, secondo le statistiche, lavoro più facilmente, ma a più bassi livelli, interrompendo un percorso di riqualificazione anche culturale”.
Esperienze passate nella capitale… “Due anni fa sempre con Integra tentammo una scommessa ai limiti della follia”, racconta Carlo Mitra, vicepresidente di Confcooperative nazionale, “inserire nel mondo del lavoro ragazzi dei campi rom, un successo per il 70% dei candidati, impiegati in cooperative nel settore dei rifiuti ingombranti, da dove si ricavano materie prime e seconde”. Anche la stessa struttura di impresa collettiva può essere un azzardo, “più o meno apprezzata a seconda se la cultura di origine prediliga forme individuali”. I maggiori rischi stanno però nell’elevata mortalità, circa il doppio rispetto alle imprese italiane. Una criticità, specie all’avvio, “è la continuità nel mercato, una volta terminati gli aiuti. Per questo si può pensare a partnership con cooperative ‘adulte’”. Poi le difficoltà di gestione “in un paese burocratico che fa morire chi fa questo mestiere da una vita, figuriamoci per chi proviene da realtà meno regolamentate”.
… e a livello nazionale Due gli ultimi progetti ministeriali riportati da Stefania Congia, della direzione generale immigrazione e politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Amici, finanziato dai Fondi Europei per l’Immigrazione nel 2010 e Start It Up, con la collaborazione delle camere di commercio di dieci città. Il primo legato al microcredito, il secondo all’avviamento di 400 imprese per altrettanti migranti. “La base di partenza è che il lavoro non è solo reddito, ma dà senso di utilità e di appartenenza. Ad esempio a Reggio Emilia era stata messa in piedi una cooperativa che gestiva i servizi di mobilità per gli anziani, inserita nel sociale”. Le difficoltà sono soprattutto nell’accesso al credito “anche se una mia amica straniera sostiene che loro sono solamente la cartina di tornasole delle nostre problematiche”.
Gabriele Santoro(24 gennaio 2013)